1. – Costituiscono esperienza ormai diffusa moduli riproducenti condizioni generali di contratto, nei quali il predisponente ha inserito affermazioni volte a far sì che la controparte, nel sottoscrivere il modulo, dichiari di «essere operatore qualificato», di «avere ricevuto [determinate] informazioni», di «avere ricevuto informazioni adeguate» sul bene o servizio oggetto del contratto, di «avere esaminato il prodotto acquistato e di averlo trovato di proprio gradimento», ovvero di «avere ricevuto copia del contratto sottoscritta [dal predisponente]»; o ancora la dichiarazione – precompilata nel modulo predisposto dal soggetto abilitato allo svolgimento dei servizi di investimento – con la quale il cliente dichiara di avere un’elevata propensione al rischio [1].
Si sostiene, in proposito, da taluno – e non sono mancate decisioni in tal senso anche della Corte di cassazione, oltre che di giudici di merito – che tali affermazioni integrino una vera e propria confessione.
Altri, invece, distinguono: per un verso escludono che in esse o in alcune di esse possa intravedersi una confessione a causa della presenza di componenti valoriali, ossia giudizi e non fatti. Esempi in tal senso sono le locuzioni «dichiaro di essere operatore qualificato», «dichiaro di avere ricevuto informazioni adeguate»: dove è evidente che l’essere l’informazione «adeguata» o no, e l’essere un determinato soggetto «operatore qualificato», e dunque escluso dall’applicazione di determinate discipline o no, è un giudizio circa l’interpretazione di norme giuridiche che per definizione spetta al giudice e non alle parti. Per altro verso, l’orientamento in esame assegna comunque una qualche rilevanza giuridica alle affermazioni sopra riportate, e alle altre analoghe che pure sono presenti nel traffico commerciale, in quanto comunque esse comporterebbero una sorta di autoresponsabilità dell’aderente, che però le sottoscrive in quanto contenute nel modulo che gli viene proposto.
Vi è poi un ulteriore aspetto di interesse nelle vicende in esame: in molti di questi casi l’aderente non è un soggetto del tutto privo di esperienza del mercato e degli affari, ma è un imprenditore. Ciò, peraltro, non significa – non è inutile chiarirlo subito – che in questi casi non vi sia un contratto asimmetrico [2]: ciò che contraddistingue questa tipologia di contratti, infatti, è che essi intervengono tra due parti aventi caratteristiche ben definite: una di loro è operatore professionale del mercato entro il quale il contratto ha luogo, l’altra parte invece – imprenditore o consumatore che sia – non lo è. Esempio evidente di tale situazione è offerto dall’impresa che necessiti di un servizio finanziario da una banca: il rapporto che si costituirà sarà regolato dai moduli e dalle condizioni generali di contratto unilateralmente predisposte dalla banca, la quale, a differenza della controparte, conosce perfettamente il mercato finanziario, i «beni» che vi si negoziano [3], con i relativi rischi ed opportunità. Altri esempi possono essere costituiti dal contratto di affiliazione commerciale e dagli altri contratti sussumibili nella figura del «terzo contratto».
Si propone quindi il problema della rilevanza ed efficacia da assegnare alle dichiarazioni sopra elencate, e alle altre analoghe, quando siano inserite nei moduli predetti, tenendo presente anche l’aspetto da ultimo sottolineato.
2. – La prima questione che si profila è stabilire se la variegata tipologia di dichiarazioni sopra accennata debba essere considerata parte delle condizioni generali di contratto.
La risposta non può che essere affermativa, sia nel caso in cui tali dichiarazioni siano poste nelle premesse dell’articolato contrattuale, sia nel caso in cui siano inserite all’interno di tale articolato o altrove nel modulo.
L’irrilevanza della collocazione delle dichiarazioni in discorso all’interno del modulo è agevolmente spiegata. Ovunque esse siano poste nel modulo, le affermazioni esemplificate in § 1 concorrono alla «disciplina uniforme» di tutti i rapporti instaurati dal predisponente per il tramite del modulo stesso (art. 1342 c.c.). E ovviamente concorrono con le altre condizioni generali di contratto a precostituire una disciplina del rapporto contrattuale in senso favorevole al predisponente. Così, in uno scenario normativo caratterizzato da una disposizione quale il non più vigente art. 31 reg. Consob n. 11522/98, allorquando l’aderente sottoscriveva il modulo contenente la dichiarazione di essere «operatore qualificato», il predisponente era automaticamente esonerato da una parte della disciplina regolamentare di tutela dell’investitore, anche se tale esonero non poteva essere esteso – mette conto rammentare – all’art. 21 TUF [4]. Ne segue che la clausola che determinava questo effetto di esclusione di una data disciplina dal rapporto contrattuale, al pari di qualsiasi altra clausola analoga, è inefficace se non approvata specificamente ai sensi del secondo comma dell’art. 1341 c.c.: essa, infatti, ad un tempo limita sia la responsabilità del predisponente, sia la facoltà di opporre eccezioni da parte dell’aderente.
Intuitivi analoghi rilievi valgono per gli altri esempi elencati nel precedente paragrafo. In particolare, merita soffermarsi sulla dichiarazione «prendiamo atto che una copia del presente contratto ci viene rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi».
Essa assume un’importanza particolare quando è apposta all’interno di moduli volti a disciplinare i contratti di cui agli artt. 117 TUB e 23 TUF, i quali richiedono una forma scritta a pena di nullità. Orbene, quando la clausola in discorso sia apposta in questi moduli, essa determina un effetto di significativo vantaggio per il predisponente, nel senso che, qualora sia ritenuta idonea a paralizzare gli effetti dell’assenza del documento sottoscritto, consente di fatto all’impresa predisponente di erogare i propri servizi senza preoccuparsi di sottoscrivere il contratto, con conseguente risparmio di rilevanti costi transattivi e con il singolare effetto di derogare per patto unilateralmente predisposto ad una norma inderogabile quale è quella che sancisce la nullità in caso di difetto di forma scritta.
3. – L’assetto contrattuale di maggior favore per il predisponente che deriva da tali clausole, non costituisce di per se, né uno scandalo, né una novità. Nei contratti unilateralmente predisposti la posizione di vantaggio dell’imprenditore predisponente, non solo viene rilevata da secoli [5], ma è stata intenzionalmente perseguita dal legislatore con l’art. 1341 c.c. in funzione di quella rapida industrializzazione del Paese [6], che rappresentò l’obiettivo strategico continuativo dei governi italiani succedutisi dai primi del novecento agli anni sessanta, con la sola eccezione degli anni 1945-1947 [7].
Questa osservazione trova puntuale riscontro nei rilievi – che ben a ragione possono definirsi: programmatici – formulati già nel 1931 da un importante giurista, che ebbe anche incarichi di governo [8]. Tali intenti programmatici si sono tradotti nelle formule operative dell’art. 1341 c.c. Sul punto la Relazione al Re sul Codice Civile, n. 612, non ammette dubbi: vi si legge che il legislatore si prefigge di intervenire sulla «realtà economica» del suo tempo imprimendovi «un acceleramento del fenomeno produttivo»; non solo dalla Relazione si ricava che il legislatore è consapevole che a tal fine è necessario, tra l’altro, «semplificare l’organizzazione e la gestione» delle imprese attraverso una contrattazione standardizzata onde consentire loro «una più precisa determinazione dell’alea».
La dottrina non ha ovviamente mancato di cogliere le implicazioni dell’art. 1341 c.c. sotto tale profilo. Si è, infatti, osservato che con l’art. 1341 c.c. è stato assegnato al predisponente il «diritto di comandare il mercato» [9]: grazie all’art. 1341 c.c. il predisponente, ossia l’impresa, può imporre alle sue controparti tutte quelle condizioni che distribuiscono i costi, i rischi e le opportunità connesse all’operazione economica realizzata col contratto, in modo assolutamente funzionale alle sue esigenze organizzative e gestionali [10]. Non può sfuggire a questo punto la primaria importanza dogmatica e politica dell’art. 1341 c.c., che peraltro fu sottolineata già nel 1943 a proposito degli standad contracts in generale: attraverso il meccanismo previsto dal primo comma si esperisce il tentativo di razionalizzare una situazione di diseguale potere dei soggetti del rapporto, cercando di ricondurla all’interno della categoria contrattuale, malgrado tale situazione contraddica i più risalenti ed importanti principi fondativi delle società, che quella categoria avevano espresso [11].
Dunque, risulta confermato quel che qui interessa: con l’art. 1341 c.c. e l’utilizzo delle condizioni generali di contratto, il legislatore consente al predisponente di semplificare per quanto possibile gli oneri gestionali ribaltando rischi e costi sulla controparte.
Se questo è il sottinteso economico-giuridico delle condizioni generali di contratto, quali sono disciplinate dall’art. 1341 c.c., è evidente che le dichiarazioni specificate nei §§ 1 e 2 determinano risultati concreti assolutamente in linea con il motivo ispiratore delle condizioni generali medesime, delle quali condividono (la natura e) la collocazione nei moduli unilateralmente predisposti dagli operatori professionali del mercato del riferimento. Si ritorna in altre parole al motivo iniziale di questo paragrafo: non v’è nulla di anomalo nel fatto che con l’inserimento nel proprio modulo della dichiarazione «prendiamo atto che una copia del presente contratto ci viene rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi», il predisponente consegua il risultato di essere esonerato (anzi, sarebbe corretto dire: di esonerarsi) dal rispetto della forma scritta ad substantiam e così si «semplifichi la vita» semplificando le procedure organizzative interne necessarie per concludere il contratto, abbattendo nel contempo i relativi costi transattivi. Del pari non deve meravigliare che con l’altra dichiarazione prima presa in esame in § 2 (con la quale il cliente aderente si dichiara «operatore qualificato») l’impresa finanziaria predisponente si esoneri dal rispetto delle disposizioni regolamentari poste a tutela dell’investitore ed imponga al primo rischi che si traducono in altrettante opportunità per l’impresa finanziaria medesima.
4. – Lo scenario così delineato apre il campo ad ulteriori considerazioni.
In primo luogo, l’equiparazione formale e sostanziale delle dichiarazioni di cui ai §§ 1 e 2 alle condizioni generali di contratto, rende palese la loro – diciamo – «complicata» riferibilità all’aderente, il quale, infatti, non le concepisce in autonomia, ma semplicemente le subisce, nel senso che questi prende atto della necessità di sottoscrivere i moduli che gli vengono proposti se intende fruire dei servizi dell’impresa predisponente, con conseguente caduta di interesse verso le condizioni generali riportate nel modulo stesso.
Si determina in questi casi un problema di natura cognitiva in ordine all’effettiva consapevolezza dell’aderente circa le clausole contenute nel modulo e la loro portata.
Tale problema è ben noto almeno fin dal XVII secolo: nella vicenda riferita da Pothier cui si è accennato nella precedente nota 5, relativa all’«abuso» perpetrato sul mercato assicurativo in Francia nella vigenza della Grande Ordonnance de la marine del 1681, lo stesso Pothier riporta che quanti non avevano predisposto le «formole» contrattuali, «le firmavano senza fare attenzione alle clausole che vi erano inserite, e delle quali essi non intendevano il senso: in tal modo essi si trovavano sottoposti a delle clausole svantaggiose che non avevano inteso» [12]. Mette conto sottolineare che nella vicenda riportata da Pothier i non predisponenti il contratto di assicurazione erano proprio gli assicuratori: ciò si sottolinea al fine di prendere atto che il deficit cognitivo sul quale si vuole portare l’attenzione, non è stato storicamente confinato a contratti con consumatori, né lo è tuttora.
Tale deficit cognitivo del non predisponente è stato, infatti, osservato periodicamente nel tempo, tanto che la recente analisi economica del diritto ne ha offerto una spiegazione plausibile in termini di c analisi costi/benefici [13].
In questa sede interessa prendere atto che un deficit cognitivo che, malgrado il trascorrere dei secoli, si ripropone nel tempo, sembra evidentemente essere di natura oggettiva ed ineliminabile. Centocinquanta anni dopo Pothier un giurista di grade autorevolezza e severità sottolineò che «il caso del contraente valde diligens …il quale si renda conto con pazienza del … contenuto [dei contratti per condizioni generali], è una rarità. Questa indolenza è dovuta certo non poco alla convinzione che, tanto, una discussione intorno alle clausole generali non approderebbe a nulla perché il contraente, che le ha predisposte, normalmente in posizione economica tale da imporle, non vi rinuncia mai». Inoltre – si aggiunse – spesso le condizioni generali, in particolare quelle maggiormente insidiose, «formulate con arte, dopo lunghe esperienze, qualche volta da redattori specializzati», sono poste in modo tale che l’aderente non se ne avvede [14]. Non diversamente, altri lustri dopo, si osserverà, a proposito dell’aderente, che «his contractual intention is but a subjection more or less voluntary to terms dictated by the stronger party, terms whose consequences are often understood only in a vague way, if at all» [15].
Di qui la ricorrente attenzione dei regolatori del mercato verso questo problema. Si sono predisposti rimedi storicamente cangianti contro i deficit cognitivi fatalmente indotti dalle dichiarazioni e dalle condizioni generali di contratto prestampate sui moduli predisposti unilateralmente. Nel tempo, ad esempio, si è imposto alle parti di redigere a mano i contratti stabilendo altresì la nullità delle clausole che avessero derogato all’Ordonnance [16], si è imposto di fare approvare specificamente clausole ritenute particolarmente gravose (art. 13412 c.c.), ovvero si è sancita la nullità delle clausole che determinano eccessivi o significativi squilibri tra le parti, siano queste ultime un «professionista» ed un consumatore (art. 33 cod. cons.), ovvero due imprenditori (art. 9 l. subfornitura).
5. – I deficit cognitivi sopra indicati elettivamente hanno luogo nei contratti sottintesi negli artt. 1336, 1341, 1342 c.c., nei contratti dei consumatori e più in generale in tutti i contratti unilateralmente predisposti. Essi hanno costituito oggetto di un ampio dibattito che ha stimolato negli anni scorsi la migliore civilistica italiana a proposito degli «scambi senza accordo»: a chi individuava il «senso profondo del contratto» in un esercizio individuale di libertà e volontà e conseguentemente escludeva che le fattispecie prima elencate potessero essere inquadrate nella categoria del contratto [17], si contrapposero quanti ritenevano realizzato l’elemento soggettivo dell’accordo nella semplice scelta della merce e nel pagamento del relativo prezzo [18].
Quel che qui più specificamente interessa di quel dibattito, è la condivisa constatazione che – come rilevava già Pothier e come ribadito nei successivi 250 anni dall’unanime dottrina di civil law come di common law – nei contratti unilateralmente predisposti l’aderente non esprime un’effettiva valutazione di ciascuna clausola inserita nel modulo contrattuale, così da poterne apprezzare ed accettare (o rifiutare) lo specifico impatto nella sua sfera giuridica [19]. L’attenzione dell’aderente, lo specifico contenuto volitivo della sua adesione, sono tutti concentrati su quelli che la dottrina di common law ha designato «salient attributes» [20], ossia gli aspetti del contratto più strettamente collegatialle qualità e alle modalità di conseguimento del bene o servizio in cambio di un determinato prezzo. Su questi soli aspetti si concentra l’attenzione del non predisponente, onde così esercitare la «libertà di comprare scegliendo» [21], senza alcun apprezzamento significativo delle altre condizioni contrattuali che gli vengono di fatto imposte.
6. – Il senso del dibattito accennato nel precedente paragrafo è evidente: ancora una volta risulta confermata la conclusione secondo la quale nei contratti posti in essere attraverso formulari, come pure nei contratti di cui all’art. 1336 c.c., e più in generale nei contratti dal contenuto unilateralmente predisposto, il requisito dello «accordo delle parti» deve essere inteso nella sua accezione formale (ma non per questo errata), vale a dire nel senso che tale requisito deve ritenersi sussistente, non già quando vi sia stato un generico «incontro delle volontà» tra le parti del contratto o un’effettiva conoscenza o consapevolezza di ciascuna parte circa il contenuto del contratto (v. infatti art. 1335 c.c.), bensì quando sia pervenuto correttamente a compimento uno di quei procedimenti espressamente previsti dalla legge a tal fine. Sono – per fare esempi circoscritti al codice civile – i diversi procedimenti previsti, in alternativa tra loro, dagli artt. 1326, 1327, 1332 e 1341 c.c. Il compimento dei diversi atti e delle diverse procedure previsti in ciascuno di detti articoli integra il requisito dell’ «accordo delle parti» ex art. 1325 n. 1 c.c., con la conseguenza che, nel concorso degli altri requisiti previsti dall’art. 1325 c.c., può dirsi perfezionata la fattispecie «contratto».
Tutto ciò, peraltro, non esclude – e i richiamati contributi di Friedrich Kessler e degli autori che hanno partecipato al dibattito sugli «scambi senza accordo» sono lì a confermarlo – che nel contratto cui fanno riferimento gli artt. 1341 e 1342 c.c. la migliore dottrina ha sempre escluso che l’adesione del non predisponente possa essere ritenuta espressione di un atto di volontà e libertà, o se si preferisce, di autonomo apprezzamento di interessi da parte dell’aderente, con conseguente scelta del relativo regolamento da imprimere agli stessi: si tratta soltanto di un «take it or leave it».
Il comune buon senso non sembra offrire indicazioni diverse.
Questa conclusione è particolarmente importante in relazione all’ultimo problema che qui si intende prendere in esame. Esso riguarda il caso di contratti per i quali è prevista la forma scritta a pena di nullità, che però risultino privi della sottoscrizione di una delle parti, e – nei casi ex artt. 117 TUF e 23 TUF – segnatamente della sottoscrizione della banca. Ci si chiede al riguardo se la conseguenza della nullità possa essere evitata e se, a tal fine, dispieghi una qualche utilità la clausola/affermazione, contenuta nel modulo sottoscritto dal cliente, a tenor della quale quest’ultimo da «atto che una copia del presente contratto [è stata a lui] rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentare [la banca]».
Un esame approfondito delle conseguenze dell’assenza del documento recante la sottoscrizione della banca oltrepasserebbe i limiti di questa nota [22]. Qui è possibile accennare solo che – in coerenza con quanto socialmente convenuto «dal Medioevo in qua»[23] – il documento contrattuale privo di sottoscrizione non soddisfa il requisito della forma scritta [24]. Una conclusione analoga – non sembra inutile segnalarlo – si ricava dal § 126 BGB(«se viene prescritta una forma scritta dalla legge il documento deve essere sottoscritto di proprio pugno da chi lo predispone o con una sigla munita di autenticazione notarile» [25].
Con riguardo alle ipotesi in cui la forma scritta sia richiesta a pena di nullità, come avviene per il contratto di credito (art. 117 TUB) e per il contratto di intermediazione mobiliare (art. 23 TUF), si precisa che «il documento non assolve soltanto … alla funzione di prova dell’atto, ma innanzi tutto alla funzione di prova della documentazione, in difetto della quale non si può nemmeno affrontare il problema dell’esistenza, validità e contenuto dell’atto» [26], con la conseguenza che si esclude che la confessione possa efficacemente sostituire il documento scritto nella prova del contratto [27].
7. – Anche a non voler seguire questa (pur convincente) dottrina, non per questo può dirsi aperta la via per poter assegnare una qualche rilevanza (sia pur latamente) confessoria alle dichiarazioni accennate nei §§ 1 e 2 quando esse siano inserite in moduli predisposti unilateralmente dalla controparte del potenziale confitente. Sulla base dei rilievi formulati nei precedenti paragrafi si profila, infatti, il dubbio sull’effettiva sussistenza nella fattispecie di un requisito essenziale della confessione, vale a dire la sua natura di dichiarazione spontanea e consapevole proveniente da colui che afferma fatti favorevoli all’altra parte e sfavorevoli a se stesso (cfr. Cass. 22 settembre 2015, n. 18264, in Foro it., Rep. 2016, Confessione civile, n. 1). Sotto questo profilo mette conto rammentare che gli art. 229 e 231 c.p.c. sottolineano come la dichiarazione confessoria debba provenire dalla parte personalmente e che il legislatore sia sensibile al profilo della consapevolezza e della diretta riferibilità della confessione alla parte personalmente fino al punto di concepire la capacità e la legittimazione a confessare come condizioni oggettive di efficacia della confessione [28].
I precedenti paragrafi escludono ogni esitazione in ordine all’affermazione che questi aspetti (diretta riferibilità dell’atto confessorio alla parte e consapevolezza della stessa in ordine all’atto stesso) non sussistono nell’adesione del non predisponente al modulo predisposto unilateralmente dalla controparte: in questi casi il non predisponente – come si è detto – è privato proprio del potere di valutare le implicazioni di ciascuna clausola o affermazione contenuta nel modulo che gli viene proposto, così da poterla eventualmente rifiutare. In altre parole, l’aderente mira solo a conseguire il bene o il servizio ed è escluso che sia effettivamente in condizione di poter isolare ed accettare le specifiche conseguenze confessorie di una determinata clausola generale, o di altra formulazione contenuta nel modulo come invece ordinariamente presupposto per la confessione.
Di qui i forti dubbi sulla possibilità di intravedere una confessione in questa tipologia di clausole [29].
[1] L’esempio è tratto dalla fattispecie decisa da Cass. 10 novembre 2015, n. 22950.
[2] Su tale nozione v. anche per riferimenti A.M. Benedetti, Contratto asimmetrico, in Enc.dir., Annali, V, 2012, 370 ss.
[3] Il lemma «beni», quando applicato all’oggetto delle negoziazioni sul mercato dei capitali, è assolutamente estraneo al significato tecnico proprio della parola alla stregua dell’art. 810 c.c.: v. G. La Rocca, Autonomia privata e mercato dei capitali: la nozione civilistica di «strumento finanziazrio»2, Torino, 2009, 33 ss.
[4] Amplius G. La Rocca, La tutela dell’impresa nella contrattazione in strumenti finanziari derivati, Padova, 2011.
[5] Nel 1761 Pothier, Trattato del contratto di assicurazione, in Opere, Seconda edizione italiana eseguita su quella pubblicata a Parigi per cura del Signore Dupin Seniore, Livorno, 1842, II, 97 ss., 129, n. 100, scrive quanto segue: «si era introdotto un abuso riguardo a questi atti [i contratti di assicurazione]. I sensali ed agenti di assicurazione avevano delle formole di questi atti stampate, nelle quali non mancavano, per essere riempite, che i nomi e le qualità del bastimento, delle mercanzie, il premio ed il nome delle parti contraenti, e nelle quali esse inserivano tutte le clausole che immaginavano per favorire le loro parti. Gli assicuratori a cui si presentavano queste formole da sottoscrivere, non informandosi che della somma che si faceva assicurare e del prezzo del premio, le firmavano senza fare attenzione alle clausole che vi erano inserite, e delle quali essi non intendevano il senso: in tal modo essi si trovavano sottoposti a delle clausole svantaggiose che non avevano inteso».
[6] Invero, «l’Italia del 1940 … era ancora un paese prevalentemente agricolo: in questo settore lavorava il 49,4 % degli oltre 19 milioni di occupati, a fronte del 27,3 % impiegato nell’industria e del 23,3 % dedito ad altre attività» (Weigmann, L’impresa nel codice civile del 1942, in Vacca (cur.), Il codice civile ha 70 anni ma non li dimostra, Napoli, 2016, 179 ss., il quale a sua volta cita dati ISTAT).
[7] Cfr. Petri, Storia economica d’Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Bologna, 2002, 51 ss., spec. 65.
[8] Cfr. Asquini, L’unità del diritto commerciale e i moderni orientamenti corporativi, in Studi di diritto commerciale in onore di Cesare Vivante, II, Roma, 1931, XI, 521 ss.
[9] Alpa, Introduzione al diritto dei consumatori, Roma-Bari, 2006, 132; P. Barcellona (con la collaborazione di C. Camardi), Diritto privato e società moderna, Napoli, 1996, 403 ss,. 404.
[10] Roppo, Contratti standard. Autonomia e controlli nella disciplina delle attività negoziali di impresa, Milano, 1975,32 ss.; Alpa, op. cit., 130.
[11] Kessler, Contracts of adhesion. Some thoughts about freedom of contracts, 43 Colum. L. Rev. 629 (1943), spec. 640.
[12] v. nota 2 supra
[13] v. ad es. Katz, Standard Form Contracts, in Newman (ed.), The New Pelgrave Dictionary of Economics and the Law, (Houndmills, Palgrave, Macmillan, (1998), § IV; Korobkin, Bounded rationality, standard form contracts, and unconscionability, The University of Chicago law Revue, 70, 4, (2003), 1203 ss., 1214 ss.
[14] Carnelutti,Studi sulla sottoscrizione, in Riv. Dir. Comm., 1929, I, 509 ss.
[15] Kessler, op. cit., 632.
[16] Cfr.Pothier, op. loc. cit.: «per rimediare a questo abuso, l’Ammiragliato di Parigi ha fatto un regolamento … che ordina che tutte le clausole derogatorie dell’Ordinanza, o straordinarie nelle polizze di assicurazione, sarebbero scritte a mano, e proibisce d’aver riguardo a queste clausole, allorché stampate».
[17] Irti, Scambi senza accordo, in Riv.trim. dir. Proc. Civ., 1998, 347 ss.; Id., “E’ vero, ma …” (replica a Giorgio Oppo), in Riv.dir.civ., 1999, I, 273 ss.; Irti, Lo scambio dei foulards, in Riv.Trim.Dir.Proc.Civ., 2000, 601.
[18] Oppo, Disumanizzazione del contratto ?, in Riv. Dir. Civ., 1998, I, 525 ss.; Gazzoni, Contatto reale e contatto fisico (ovverosia l’accordo contrattuale sui trampoli), in Riv. Dir. Comm., 2002, I, 655 ss.
[19] Bianca, Acontrattualità dei contratti di massa?, in Vita notarile, 2001, 1120 ss., 1127, il quale, qui in sostanziale condivisione delle tesi di Irti, osservò che “punto realmente rilevante è se la volontà dell’aderente abbia efficacia conformatrice del rapporto». Si tratta di una constatazione diffusa: v. ad es. tra molti S. Patti, in G. Patti, S Patti, Responsabilità precontrattuale e contratti standard. Artt. 1337 – 1342, in Il codice civile. Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1993, 325; S. Maiorca, Contratti standard, in Noviss. Digesto, App. II, Torino, 1981, 617 ss., 623; Betti, Teoria generale del negozio giuridico2, Torino, 1950, 95 s.;Mossa, La documentazione del contenuto contrattuale, in Riv. Dir. Comm., 1919, I, 414 ss. 452.
[20] V. per tutti Katz, op. cit.; Korobkin, Bounded rationality, standard form contracts, and unconscionability, The University of Chicago Law Revue,70, 4, (2003), 1203 ss., 1206.
[21] Oppo, op. cit., 532 s.
[22] Si veda comunque anche per riferimenti Tucci, Conclusione del contratto e formalismo di protezione nei servizi di investimento, in Il Corriere giuridico, 2016, 1117 ss.
[23] Savigny, Sistema del diritto romano attuale, traduzione dall’originale tedesco di Vittorio Scialoja, Torino, 1891, III, 244: «la dichiarazione di volontà per iscritto dal medio evo in qua viene fatta mediante sottoscrizione autografa del proprio nome apposta ad uno scritto esarato dal sottoscrivente o da un altro, con che quegli dichiara essere suoi pensieri e suo volere il contenuto di quello scritto». Il dato tradizionale è confermato, anche nelle sue eccezioni, da Pothier, Trattato delle obbligazioni, IV, I, in Opere, I, cit., 544 ss.
[24] Roppo, Il contratto2, Milano, 2011, 218; F. Di Giovanni, La forma, in I contratti in generale, II, a cura di E. GabrielliTrattato dei contratti, diretto da P. Rescigno, Torino, 1999, 770 ss.;Berti De Marinis, La forma del contratto nel sistema di tutela del contraente debole, Napoli, 2013, 207 ss., ivi riferimenti ulteriori.
Nella dottrina recente è stata avanzata un’idea alternativa. Essa ruota su un duplice presupposto: il primo è che, la forma prevista dagli artt. 23 TUF e 117 TUB, benché richiesta a pena di nullità, sarebbe soprattutto una «forma informativa», ossia una forma volta ad abbattere le asimmetrie informative esistenti tra le parti circa il contenuto del contratto, o aspetti di questo, ritenuti rilevanti dal legislatore, con la conseguenza che il conseguimento del fine informativo renderebbe irrilevanti gli eventuali difetti formali. Qui non è possibile un compiuto esame di questa tesi, a causa dei molteplici profili interessati. È solo possibile osservare che la tesi non trova supporto nel sistema, atteso che non esistono esempi di forme documentali rappresentative di contratti per le quali la legge contenga elementi dai quali poter presumere che le parti siano esonerate dal rispetto dei requisiti richiesti dall’art. 2702 c.c.
[25] Se ne propone la traduzione di S. Patti, Codice civile tedesco, Milano, 2005. Il testo tedesco così recita:«Ist durch Gesetz schriftliche Form vorgeschrieben, so muss die Urkunde von dem Aussteller eigenhändig durch Namensunterschrift oder mittels notariell beglaubigten Handzeichens unterzeichnet werden».
[26] Liserre, Formalismo negoziale e testamento, Milano, 1966, 202.
[27] cfr. ad es. Sacco, De Nova, Il contratto3, Torino, 2004, I, 713; Liserre, Forma degli atti, I, Diritto civile, in Enc. Giur. Treccani, Roma, XVI, 2007, 2; Id., Formalismo negoziale e testamento, cit., 197 ss. Isolata è rimasta la risalente opinione contraria di C.A. Graziani, Il dogma dell’inammissibilità dei contratti solenni, in La forma degli atti nel diritto privato. Studi in onore di Michele Giorgianni, Napoli, 1988, 439 ss.
[28] Cfr. Furno, Confessione (dir. Proc. Civ.), in Enc. Dir., VIII, Milano, 1961, 870 ss., par. 5; particolare attenzione al tema della «natura negoziale» della dichiarazione confessoria e ricognitiva dedica Granelli, Confessione e ricognizione nel diritto civile, in Digesto IV, sez. civ., Torino, 1988, dove, peraltro, non si precisa quale sia il significato che l’A. attribuisce a tale espressione
[29] Sui profili analizzati in queste pagine non si sofferma Pagliantini, L’incerto incedere del formalismo di protezione tra usi e abusi, in Contratto e impresa, 2013, 299 ss.