Annunziata & Conso, network di professionisti specializzato nel settore dei mercati finanziari e dei servizi di investimento e bancari [1], intende anzitutto ringraziare codesto Ministero per l’opportunità offerta di esprimere osservazioni e commenti al documento per la consultazione pubblica “Proposte per la Strategia italiana in materia di tecnologie basate su registri condivisi e Blockchain” (il “Documento”), pubblicato in data 18 giugno 2020. Analizzato il contenuto del Documento, Annunziata & Conso si pregia di formulare le seguenti osservazioni e autorizza sin d’ora la pubblicazione e la divulgazione del presente contributo.
(i) Premessa
Prima di passare alla formulazione di puntuali osservazioni in merito alle proposte poste nell’ambito del Documento, si esprime apprezzamento per l’iniziativa promossa da codesto Ministero. In particolare, risulta condivisibile la volontà di rafforzare la leadership italiana, che ha già maturato importanti esperienze legate alla Blockchain sia nel settore FinTech che a supporto dell’industria e dei servizi, attraverso una strategia nazionale in grado di indirizzare, incentivare e supportare tali esperienze, promuovendo la collaborazione tra pubblico e privato e favorendo la creazione di un quadro regolamentare atto a favorire lo sviluppo di nuove tecnologie basate sulla Blockchain e il loro utilizzo da parte delle imprese, della pubblica amministrazione e dei cittadini.
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Tenuto conto delle competenze professionali presenti nel network Annunziata & Conso – che ricordiamo essere specializzato in diritto bancario e dei mercati fonanziari – nel prosieguo si espongono le osservazioni in merito ad alcune soltanto delle proposte formulate nel Documento.
(ii) Proposta 2.9 Raccomandazioni relative ai token digitali gestiti attraverso un registro distribuito (in parte Consob)
Osservazioni
Si condivide l’esigenza di creare quanto prima un quadro normativo sovranazionale chiaro e coerente, che disciplini organicamente il fenomeno delle criptoattività e delle loro offerte. Infatti, solo con un corpus di regole certe e coerenti gli operatori del mercato potranno sviluppare nuovi modelli di business ed innovare competendo sui mercati internazionali.
Ciò premesso, si ritiene meritevole di approfondimento la proposta contenuta nel Documento di definire la fattispecie degli utility token, al fine di consentire l’emissione e la circolazione di token che attribuiscono al loro possessore unicamente un diritto di utilizzo, di godimento, di acquisto o di proprietà che abbia come oggetto un servizio o un bene materiale o immateriale e che non siano qualificabili come strumenti o prodotti finanziari, né abbiano natura monetaria.
Più precisamente, ad avviso di chi scrive, al fine di classificare correttamente i token e di individuare la disciplina ad essi applicabile non è sufficiente considerare il loro contenuto “intrinseco” di diritti e obblighi, ma occorre valutare anche la loro eventuale idoneità ed essere negoziati su un mercato secondario o a costituire l’oggetto di un investimento di natura finanziaria. Tale idoneità potrebbe, infatti, comportare l’attrazione di token il cui contenuto giuridico è di per sé privo di connotazione finanziaria nell’alveo degli strumenti o dei prodotti finanziari, con la conseguente applicazione delle relative discipline.
Com’è noto, nel recente passato studiosi, regolatori e supervisori, sia nazionali sia internazionali, hanno formulato ipotesi in merito alle caratteristiche che le criptoattività devono (o non devono) possedere per essere qualificate come strumenti o prodotti finanziari. Tuttavia, l’approccio fino ad oggi adottato per tali analisi pare a chi scrive non pienamente soddisfacente, oltre che lungi dall’aver trovato un punto di approdo ampiamente condiviso.
Osservando l’attuale dibattito si nota, infatti, che i tentativi di qualificazione delle criptoattività si concentrano sulla loro riconduzione ad una o più delle fattispecie tipiche previste dal sistema basata su un’analisi del loro contenuto giuridico “intrinseco”, in applicazione di ciò che può essere definito come un approccio “bottom up”. In questo contesto, la qualificazione dei critpo-asset è operata confrontando il loro contenuto giuridico con quello proprio, da un lato, delle fattispecie tipiche previste dalla disciplina dei servizi di pagamento (quale quella degli strumenti di pagamento) e, dall’altro, delle fattispecie previste dalle norme sulle offerte pubbliche (e, in particolare, di quella di prodotto finanziario) e – ovviamente – delle fattispecie previste dal regime MiFID (e, quindi, di quella di strumento finanziario).
Ritiene chi scrive che tale approccio “bottom-up” (per quanto perfettamente ragionevole e comprensibile) debba essere integrato con un approccio “top-down”, che consideri – oltre ai contenuti giuridici dei token – anche il ruolo svolto dalle piattaforme di trading sulle quali sono scambiati le criptoattività [2].
L’esigenza di adottare questo approccio integrato deriva dal fatto che uno utility token “puro”, che non presenta, cioè, alcuna caratteristica di finanziarietà, viene scambiato su un circuito che abbia caratteristiche che lo rendono assimilabile ad un MTF (o ad un’altra trading venue), rischia una sorta di “mutazione genetica” che ne comporta l’attrazione nel novero degli strumenti finanziari. E ciò a causa, non tanto della sua funzione “intrinseca”, quanto piuttosto della sua “negoziabilità”.
Si pone, quindi, il problema di stabilire se ed a quali condizioni le variegate tipologie di criptoattività, se negoziate (o negoziabili) su un mercato secondario, siano qualificabili alla stregua di strumenti finanziari.
Più precisamente, la questione della possibile riqualificazione dei token (inclusi gli utility token) quali strumenti finanziari, riguarda la riconducibilità degli stessi agli strumenti derivati e, in particolare, ai derivati su commodity o su merci, per tali intendendosi quelli “che fanno riferimento a merci o attività sottostanti di cui all’Allegato I, sezione C, punti 5), 6), 7) e 10), nonché gli strumenti finanziari previsti dal comma 1-bis, lett. c), quando fanno riferimento a merci o attività sottostanti menzionati all’Allegato I, sezione C, punto 10)” [3].
La possibile riqualificazione degli utility token come strumenti finanziari derivati impone di valutare caso per caso se essi presentino in concreto una componente derivativa, e, quindi, abbiano un valore che dipende da un sottostante. In particolare, occorre chiedersi (i) se il token esaminato abbia un sottostante, (ii) se il valore del token possa variare in funzione della variazione del valore di tale sottostante e (iii) se il token sia regolato o possa essere regolato a scelta di una delle parti in denaro, anziché con consegna fisica del sottostante, e se sia negoziato o sia negoziabile su un mercato secondario che abbia caratteristiche che lo assimilano ad una trading venue riconosciuta ai sensi della MiFID II.
In tal caso, il vocabolario che conosciamo nell’ambito di MiFID II è già abbastanza ampio ed articolato da attrarre nel proprio ambito di applicazione i token in relazione ai quali la risposta ai quesiti di cui sopra sia positiva [4].
La domanda sulla potenziale qualificazione dei token come derivati è, allo stato attuale del dibattito, sostanzialmente aperta e sussiste un significativo livello di incertezza a riguardo: ciò risulta anche dall’indagine condotta tra le autorità di vigilanza degli Stati membri nel contesto del Parere ESMA del 2019 [5]. Tuttavia, l’impressione che emerge dalle analisi finora condotte è che questo profilo non è stato sufficientemente approfondito. Fino ad ora, l’attenzione è stata principalmente focalizzata sulla necessità di qualificare i token come attività idonee all’inclusione nelle categorie di base di strumenti finanziari regolati dalla MiFID, mentre la questione della loro riconducibilità ai derivati sembra sostanzialmente trascurata. Riteniamo che la questione non possa essere risolta in senso generale, giacché richiede un esame caso per caso del singolo token, e delle sue caratteristiche [6]. Certamente, quando il token ha, come sottostante, uno strumento per la raccolta di capitali che può essere ricondotto alle tassonomie dei “valori mobiliari”, la sua qualificazione come derivato risulta, tutto sommato, facile, e il token sarebbe molto probabilmente un derivato finanziario sotto tutti gli aspetti. Al contrario, quando si considera un “puro” utility token, o un token “ibrido”, la domanda è più complessa.
Tutto ciò premesso, consci dei problemi ermeneutici relativa alla qualificazione giuridica delle criptoattività, facciamo seguito alla proposta di cui al paragrafo 3 del capitolo 2.9 del Documento, relativa alla definizione della fattispecie “dei token di utilizzo (utility token) – onde consentire l’emissione e la vendita di token rappresentativi di servizi e beni, materiali o immateriali, non rappresentativi di strumenti/prodotti finanziari né aventi natura monetaria, attributivi di diritti di utilizzo, godimento o proprietà al loro possessore sul bene che i token esprimono”.
Nello specifico, si ritiene che un tentativo di qualificazione giuridica degli utility token debba tenere conto dell’attuale disciplina dei documenti di legittimazione di cui all’articolo 2002 del Codice Civile italiano, ovvero, di quei “documenti che servono solo a identificare l’avente diritto alla prestazione, o consentire il trasferimento del diritto”. Se, infatti, la finalità precipua degli utility token è meramente quella di attribuire “diritti di utilizzo, godimento o proprietà al loro possessore sul bene che i token esprimono”, al netto delle nuove caratteristiche tecnologiche incorporate dai token, non si vede quale sia la differenza sostanziale tra questi ultimi e dei “semplici” documenti di legittimazione; documenti molto diffusi nella vita quotidiana (pensiamo, ad esempio, ai biglietti dell’autobus o del cinema) [7]. Tale soluzione interpretativa sembra, peraltro, essere in linea con quanto già proposto dalla CONSOB nel Documento per la Discussione “Le offerte iniziali e gli scambi di cripto-attività” pubblicato il 19 marzo 2019, con riferimento alla definizione di criptoattività.
In conclusione, anche a fini di coerenza sistemica, non possiamo non menzionare quanto già previsto dall’ordinamento italiano con riferimento al recepimento della V Direttiva antiriciclaggio e più precisamente con il d.lgs. n. 125 del 4 ottobre 2019, il quale da come definizione di valuta virtuale: “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”. È evidente l’intento del legislatore del 2019 di ampliare la portata della definizione comunitaria; intento, peraltro, espressamente dichiarato nella Relazione che accompagnava lo schema del decreto legislativo, la quale chiarisce che la definizione mira ad includere, sia sul piano soggettivo (ovvero dei soggetti obbligati all’adempimento degli obblighi antiriciclaggio), sia su quello oggettivo (ovvero delle fattispecie rilevanti), una casistica ampia, variegata e difficilmente codificabile. Questo tentativo comporta che nella definizione di cui trattasi possano – almeno in linea di principio – “convivere”, solo per fare alcuni esempi, asset riconducibili alle nozioni di “beni” (così come definiti nell’art. 810 c.c.), di “documenti di legittimazione”, di “strumenti finanziari” (come definiti dall’art. 1. co. 2 del TUF), “prodotti finanziari” (come definiti nell’art. 1, co. 1, lett. u) del TUF), di “strumenti di pagamento” (come definiti dal TUB) e così via. Asset la cui qualificazione in diritto dipende anche dalle modalità e dalle finalità per le quali emittenti e titolari, ne caratterizzano emissione e circolazione.
Sebbene l’ampiezza della definizione sopra riportata non ci aiuti a dirimere il dibattito (di cui supra) sulla eventuale riconducibilità dei token alla categoria dei derivati, ha il pregio, vista la sua omnicomprensività, di non escludere la categoria dei documenti di legittimazione dall’alveo di applicazione della normativa volta a contrastare il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo (“AML/CFT”). Pertanto, la nostra proposta di “ri-lettura” degli utility token alla luce della categoria giuridica del documento di legittazione, non presenta problemi di coerenza sistemica anche con riferimento alla normativa AML/CFT.
(iii) Proposta 2.11 Raccomandazioni relative alla value chain delle criptoattività.
Osservazioni
L’analisi effettuata delle differenze tra le previsioni normative contenute nella IV e V Direttiva Antiriciclaggio e le norme italiane di recepimento nell’ambito dei decreti legislativi che hanno modificato il D. Lgs. 231/07 è puntuale e condivisa, mostrando come l’omissione o l’aggiunta di alcune locuzioni possa rendere difficoltoso lo sviluppo delle criptoattività e delle correlate tecnologie nonché, di conseguenza, degli operatori attivi in tali settori, ostacolando di fatto la diffusione delle nuove tecnologie presso il grande pubblico. Si aggiunga che l’eterogenea posizione adottata da diversi Paesi nel mondo riguardo sia alla definizione del quadro giuridico, che riguardo all’utilizzo di queste nuove tecnologie ne ostacola l’interoperabilità internazionale in modo paradossale, essendo le nuove tecnologie per definizione avulse dai confini geografici e, in questo senso, si condivide pienamente l’indicazione contenuta in altri paragrafi del documento di sviluppare una cooperazione nella creazione di un ambiente giuridico/operativo comune quantomeno in ambito europeo.
Un’osservazione concerne comunque l’alveo in cui è contenuta a livello europeo e italiano la normativa concernente le criptoattività e cioè la normativa per la prevenzione dell’utilizzo del sistema a fini di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo che appare rappresentativa dell’atteggiamento che potremmo definire quantomeno “avverso” delle Autorità nei confronti di tale innovazione tecnologia. Sarebbe opportuno che le Autorità italiane in coordinamento con quelle europee “fondassero” un quadro normativo ad hoc per tali attività che permettesse la regolamentazione delle stesse come attività proprie del nuovo paradigma tecnologico anche modificando/adattando normative esistenti di natura civilistica e/o finanziaria. La normativa antiriciclaggio in questo senso dovrebbe essere poi adattata alla nuova tecnologia e non secondo un paradigma di ostacolo allo sviluppo della stessa; ma con previsioni che si plasmino maggiormente alle caratteristiche operative, le tecnologie utilizzate e i rischi ad esse sottostanti, al fine di governare un processo di sviluppo ordinato di questa particolare evoluzione tecnologica che, ineluttabilmente, nel corso del tempo, assumerà connotati di pervasività soprattutto nel sistema dei pagamenti.
L’utilizzo delle tecnologie DLT – con il sottostante concetto di decentralizzazione – rappresenta senz’altro uno degli sviluppi più promettenti nel cambiamento dei paradigmi organizzativi oggi esistenti in diversi settori di attività. Tale nuovo paradigma pone anche problematiche, in quanto si innesta in un ambiente giuridico evolutosi secondo logiche organizzative che hanno visto le controparti centrali quali protagoniste della ricezione/trasmissione e conservazione delle informazioni, creando una catena del valore delle informazioni parcellizzata, ove è necessario accorpare i dati di più gestori per avere una rappresentazione unitaria dei fenomeni. La nuova tecnologia rende tutto ciò diverso, i dati sono contenuti in un registro decentralizzato che rappresenta il fenomeno nella sua unitarietà e profondità storica e certificata, con le conseguenti ricadute sui diritti (dal diritto di proprietà, alla privacy, all’antiriciclaggio, sicurezza informatica, etc.) che richiedono un diverso modo di essere rappresentati nel quadro giuridico. In questo senso, tornando all’antiriciclaggio, è necessario sfruttare le caratteristiche di tracciabilità dei flussi propri della tecnologia DLT e la sua inalterabilità che garantirebbe, se opportunamente regolamentata e diffusa, ad esempio, nel sistema dei pagamenti, di risolvere gran parte delle problematiche di monitoraggio dei flussi finanziari, scoraggiando attività illecite di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo e/o garantendo l’identità dei soggetti che movimentano i flussi finanziari.
(iii) Proposta 2.12. Raccomandazioni relative all’applicazione della normativa antiriciclaggio
La proposta di semplificazione contenuta nel paragrafo è auspicabile ma richiede comunque un ripensamento generale della norma antiriciclaggio e, in particolare, di quelle che sono le disposizioni in materia di adeguata verifica. Infatti, occorrerebbe riconsidarare i casi in cui, nell’ambito dell’operatività in criptoattività, occorre applicare le diverse forme di adeguata verifica (ovvero, ordinaria, semplificata e rafforzata) al fine di definire chiaramente per gli operatori finanziari e non, sottoposti alla normativa antiriciclaggio (c.d. soggetti obbligati), quando ricorrere alla diverse forme di adeguata verifica. In questa “ridefinizione”, è sicuramente opportuno capire anche come poter sfruttare le proprietà della tecnologia DLT, al fine di tracciare i flussi finanziari. Se ipotizziamo uno sviluppo del sistema dei pagamenti che utilizza le criptoattività e la conseguente possibilità di poter identificare fattispecie, al ricorrere delle quali, è possibile applicare semplificazioni agli adempimenti antiriciclaggio, ciò porterà sicuramente allo sviluppo e alla maggiore diffusione delle nuove tecnologie; ma come sopra accennato, a tale maggiore diffusione contribuisce, comunque, uno sviluppo normativo nella materia de qua che incorpori l’operatività in criptoattività in tutte le sue declinazioni, non limitandosi al campo definitorio.
[1] Cfr. per maggiori informazioni il sito https://annunziataconso.eu/.
[2] F. Annunziata, Speak if you can: what are you? An alternative approach to the qualification of tokens and initial coin offerings, Bocconi Legal Studies Research Paper Series No. 2636561, 37 e ss., reperibile al seguente indirizzo https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3332485##.
[3] Art. 1, comma 2-ter, D.lgs. n. 58/1998 (TUF).
[4] F. Annunziata, La disciplina delle trading venues nell’era delle rivoluzioni tecnologiche: dalle cryptovalute alla distributed ledger technology, X Convegno annuale dell’Associazone Italiana dei Professori Universitari di Diritto Commerciale “Orizzonti del Diritto Commerciale”, “L’evoluzione tecnologica e il diritto commerciale” Roma, 22-23 febbraio 2019.
[5] ESMA, Advice on Initial Coin Offerings and Crypto-Assets ESMA50-157-1391, 9 gennaio 2019, consultabile qui: https://www.esma.europa.eu/sites/default/files/library/esma50-157- 1391_crypto_advice.pdf.
[6] Infatti, nell’ESMA Advice del gennaio 2019, alcuni dei sei token analizzati sembrano avere caratteristiche tali da essere potenzialmente assimilabili agli strumenti derivati, anche se, su questo punto, le posizioni espresse dalle autorità di vigilanza non sono inequivocabili (cfr., in particolare, i paragrafi 76-89).
[7] Inoltre, ad essi non si applica la disciplina di cui al Titolo V (“Dei titoli di credito”) del Codice Civile.