Oggetto: Risposta alla consultazione pubblica sul documento “Orientamenti di vigilanza della Banca d’Italia e della CONSOB per le società di investimento semplice – SiS”.”.

Annunziata & Conso intende anzitutto ringraziare codeste spettabili autorità per l’opportunità offerta di esprimere osservazioni e commenti al documento per la consultazione richiamato in oggetto (“Documento per la Consultazione”), analizzati i contenuti del quale chi scrive si permette di riportare le seguenti osservazioni.

* * *

(i) SiS e gestori sottosoglia

Il Documento per la Consultazione, con riferimento a diversi ambiti di rilievo, identifica come idoneo per le SiS il regime normativamente previsto per i gestori sottosoglia, senza tuttavia ricondurre espressamente le SiS al novero dei gestori sottosoglia medesimi.
L’alterità tra SiS e gestori sottosoglia risulta peraltro evidente dal paragrafo 4. del Documento di Consultazione, laddove è riportato che “[n]el caso di superamento non temporaneo del limite da parte di una SiS riservata e di richiesta di autorizzazione come gestore sotto soglia, non è richiesta la trasmissione delle informazioni di cui al punto”.

Ciò detto, si osserva che, ai sensi del regolamento di attuazione degli articoli 4-undecies e 6, comma 1, lettere b) e c-bis), del TUF, approvato con provvedimento della Banca d’Italia del 5 dicembre 2019 (“Provvedimento Banca d’Italia 5.12.2019”), i gestori sottosoglia sono definiti come “i gestori indicati all’articolo 35-undecies del TUF”; articolo, quest’ultimo, che – ai commi da 1-bis a 1-quater – include la specifica disciplina delle SiS, con la conseguenza che, a mente dell’assetto definitorio del Provvedimento Banca d’Italia 5.12.2019, le SiS dovrebbero essere classificate come gestori sottosoglia. Tale conclusione, tuttavia, confligge con l’impostazione del Documento per la Consultazione, in base alla quale le SiS non sono classificate come gestori sottosoglia, per quanto come detto, con rifermento a taluni ambiti, il regime dei gestori sottosoglia sia ritenuto idoneo anche per le SiS.
Si osserva altresì che il Titolo III, Capitolo I, Sezione III, Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio, adottato con provvedimento della Banca d’Italia del 19 gennaio 2015, come tempo per tempo modificato (“Provvedimento Banca d’Italia 19.1.2015”), identifica le SICAF sotto soglia come “riservate a investitori professionali”. Si tratta di un elemento che, ove le SiS fossero identificabili come un sotto-insieme dei gestori sottosoglia, risulterebbe incompatibile con la circostanza che le SiS possono essere costituite sia come SICAF riservate a investitori professionali sia come SICAF non riservate a investitori professionali.

Si tratta, con tutta evidenza, di profili che generano una carenza di piena chiarezza in merito all’esatto quadro normativo applicabile alle SiS.

Alla luce di quanto sopra, si suggerisce di valutare l’opportunità di chiarire se le SiS siano riconducibili o meno al novero dei gestori sottosoglia, al fine di sterilizzare il rischio di incertezze e problematiche nell’applicazione della disciplina de quo.

(ii) Patrimonio netto delle SiS e modalità di raccolta del patrimonio

Si richiede anzitutto di chiarire se la soglia massima identificata di Euro 25.000.000,00, di cui all’art. 1, comma 1, lett. i-quater), punto 1, TUF, debba intendersi come riferito al “patrimonio netto” come dato strettamente contabile, ovvero possa intendersi come relativo al dato sulla raccolta realizzata dalla SiS. Tale ultima opzione, infatti, si ritiene quella più aderente alla ratio della disciplina in questione, nonché alla specifica funzione attribuibile alla soglia richiamata, avente la finalità di sterilizzare il rischio che le SiS si trasformino in uno strumento di raccolta diffuso in maniera rilevante tra il pubblico.
Si osserva peraltro che, ove il limite di Euro 25.000.000,00 fosse riferito al dato strettamente contabile del “patrimonio netto”, ciò implicherebbe, con tutta evidenza, rilevanti difficoltà gestorie e amministrative; ciò, in modo particolare, nel caso di SiS che adottino, ai fini della valorizzazione delle partecipazioni in società non quotate detenute in portafoglio, criteri di valutazione diversi dal “criterio generale di valutazione” ex Titolo V, Capitolo IV, Sezione II, punto 2.4.2, Provvedimento Banca d’Italia 19.1.2015 (i.e. “valutazione al costo di acquisto”). Infatti, una rivalutazione positiva registrata a livello di società incluse nel patrimonio della SiS, con eventuale connesso superamento della soglia del patrimonio netto contabile di Euro 25.000.000,00, potrebbe costringere le società, al fine di mantenere il proprio status di SiS, a dismettere tempestivamente e “forzatamente” una o più delle partecipazioni incluse nel proprio patrimonio, con evidente inopportuno pregiudizio per i soci della SiS medesima.

Chiarito quanto precede, si richiede in ogni caso di confermare che le SiS possono procedere a raccogliere, nel corso della propria vita, impegni di sottoscrizione per importi complessivamente anche eccedenti Euro 25.000.000,00, attraverso le modalità tecniche ritenute più funzionali od opportune, ferma comunque la necessità di garantire tempo per tempo il requisito del patrimonio netto non eccedente Euro 25.000.000,00, di cui all’art. 1, comma 1, lett. i-quater), punto 1. Tale possibilità sembrerebbe potersi ricavare dalla lettera della norma, così come letta anche alla luce della relazione illustrativa che ha accompagnato il provvedimento di modifica del TUF (rif. “Schema di decreto-legge recante misure urgenti per la crescita economica” – Relazione illustrativa del 2 aprile 2019) con il quale sono chiarite le intenzioni del Legislatore, nell’introdurre questa “nuova” tipologia di FIA.

L’esemplificazione che segue può chiarire meglio il quesito.
Si fa riferimento al meccanismo noto nella prassi come “refill”, in base al quale in sintesi, ipotizzando la potenziale attività di raccolta, investimento e disinvestimento di una SiS, quest’ultima, con o senza ricorso a una struttura multicomparto, potrebbe:
(i) raccogliere impegni complessivi per Euro 25.000.000,00;
(ii) investire le risorse rivenienti dal richiamo totale o parziale degli impegni di cui al punto (i) che precede;
(iii) a fronte di disinvestimenti di attività incluse nel patrimonio della SiS, procedere con distribuzioni a vantaggio degli azionisti, a titolo di proventi e/o di rimborsi, in tutto o in parte, degli investimenti effettuati dagli azionisti della SiS a fronte dalla sottoscrizione delle azioni della SiS medesima;
(iv) procedere alla raccolta di nuovi impegni, da parte dei soci presenti e/o di nuovi soci, per un importi comunque idonei a garantire che, tempo per tempo, il patrimonio netto della SiS non ecceda la soglia di Euro 25.000.000,00.

La soluzione del quesito che precede, consente di meglio intendere anche i presupposti e le condizioni al verificarsi delle quali sarebbe necessario per le SiS dare avvio alla procedura per essere ammessa ad operare come gestore sottosoglia o soprasoglia (c.d. “opt-in”).

(iii) Ambito territoriale della politica di investimento delle SiS 

La definizione di SiS ai sensi del TUF (art. 1, comma 1, lett. i-quater), punto 2) prevede che le SiS hanno per oggetto esclusivo “l’investimento diretto del patrimonio raccolto in PMI non quotate su mercati regolamentati di cui all’articolo 2 paragrafo 1, lettera f), primo alinea, del regolamento (UE) 2017/1129 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 2017 che si trovano nella fase di sperimentazione, di costituzione e di avvio dell’attività, in deroga all’articolo 35-bis, comma 1, lettera f)”.

In relazione a siffatto elemento, ferma in ogni caso la necessità di circoscrivere l’attività di commercializzazione delle azioni della SiS al territorio italiano, si richiede – per quanto di competenza di codeste spettabili Autorità – di poter confermare che le PMI, incluse nella definizione sopra richiamata, non devono necessariamente essere imprese italiane (i.e. di diritto italiano).
Infatti, l’unico riferimento normativo di rilievo, ai fini della corretta identificazione delle società potenzialmente compatibili con la politica di investimento delle SiS, risulta quello di cui alla richiamata disciplina di matrice europea (i.e. art. 2, paragrafo 1, lettera f), primo alinea del regolamento (UE) 2017/1129 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 2017), con conseguente assenza di un preciso riferimento al territorio nel quale le società, potenzialmente oggetto di investimento da parte delle SiS, devono avere la propria sede legale od operativa.

Da ultimo, sempre per quanto di competenza di codeste spettabili Autorità e con riferimento alla politica di investimento delle SiS ex art. 1, comma 1, lett. i-quater, punto 2, TUF, si richiede di poter avere chiarimenti in merito al significato alla formula “fase di sperimentazione, di costituzione e di avvio dell’attività”. A parere di chi scrive, la genericità del periodo, rischia di ingenerare dubbi e complessità operative rispetto alla definizione delle possibili società nelle quali le SIS potranno concretamente investire.

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Si rimane a disposizione per ogni chiarimento e si coglie l’occasione per porgere i migliori saluti.
Annunziata & Conso

Oggetto: Osservazioni in merito al Documento per la Discussione “Proposte per la Strategia italiana in materia di tecnologie basate su registri condivisi e Blockchain”.

Annunziata & Conso, network di professionisti specializzato nel settore dei mercati finanziari e dei servizi di investimento e bancari1, intende anzitutto ringraziare codesto Ministero per l’opportunità offerta di esprimere osservazioni e commenti al documento per la consultazione pubblica
Proposte per la Strategia italiana in materia di tecnologie basate su registri condivisi e Blockchain” (il “Documento”), pubblicato in data 18 giugno 2020. Analizzato il contenuto del Documento, Annunziata & Conso si pregia di formulare le seguenti osservazioni e autorizza sin d’ora la pubblicazione e la divulgazione del presente contributo.

(i) Premessa

Prima di passare alla formulazione di puntuali osservazioni in merito alle proposte poste nell’ambito del Documento, si esprime apprezzamento per l’iniziativa promossa da codesto Ministero. In particolare, risulta condivisibile la volontà di rafforzare la leadership italiana, che ha già maturato importanti esperienze legate alla Blockchain sia nel settore FinTech che a supporto dell’industria e dei servizi, attraverso una strategia nazionale in grado di indirizzare, incentivare e supportare tali esperienze, promuovendo la collaborazione tra pubblico e privato e favorendo la creazione di un quadro regolamentare atto a favorire lo sviluppo di nuove tecnologie basate sulla Blockchain e il loro utilizzo da parte delle imprese, della pubblica amministrazione e dei cittadini.

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Tenuto conto delle competenze professionali presenti nel network Annunziata & Conso – che ricordiamo essere specializzato in diritto bancario
e dei mercati fonanziari – nel prosieguo si espongono le osservazioni in merito ad alcune soltanto delle proposte formulate nel Documento.

(ii) Proposta 2.9 Raccomandazioni relative ai token digitali gestiti attraverso un registro distribuito (in parte Consob)
Osservazioni

Si condivide l’esigenza di creare quanto prima un quadro normativo sovranazionale chiaro e coerente, che disciplini organicamente il fenomeno delle criptoattività e delle loro offerte. Infatti, solo con un corpus di regole certe e coerenti gli operatori del mercato potranno sviluppare nuovi modelli di business ed innovare competendo sui mercati internazionali.

Ciò premesso, si ritiene meritevole di approfondimento la proposta contenuta nel Documento di definire la fattispecie degli utility token, al fine di consentire l’emissione e la circolazione di token che attribuiscono al loro possessore unicamente un diritto di utilizzo, di godimento, di acquisto o di proprietà che abbia come oggetto un servizio o un bene materiale o immateriale e che non siano qualificabili come strumenti o prodotti finanziari, né abbiano natura monetaria.

Più precisamente, ad avviso di chi scrive, al fine di classificare correttamente i token e di individuare la disciplina ad essi applicabile non è sufficiente considerare il loro contenuto “intrinseco” di diritti e obblighi, ma occorre valutare anche la loro eventuale idoneità ed essere negoziati su un mercato secondario o a costituire l’oggetto di un investimento di natura finanziaria. Tale idoneità potrebbe, infatti, comportare l’attrazione di token il cui contenuto giuridico è di per sé privo di connotazione finanziaria nell’alveo degli strumenti o dei prodotti finanziari, con la conseguente applicazione delle relative discipline.

Com’è noto, nel recente passato studiosi, regolatori e supervisori, sia nazionali sia internazionali, hanno formulato ipotesi in merito alle caratteristiche che le criptoattività devono (o non devono) possedere per essere qualificate come strumenti o prodotti finanziari. Tuttavia, l’approccio fino ad oggi adottato per tali analisi pare a chi scrive non pienamente soddisfacente, oltre che lungi dall’aver trovato un punto di approdo ampiamente condiviso.

Osservando l’attuale dibattito si nota, infatti, che i tentativi di qualificazione delle criptoattività si concentrano sulla loro riconduzione ad una o più delle fattispecie tipiche previste dal sistema basata su un’analisi del loro contenuto giuridico “intrinseco”, in applicazione di ciò che può essere definito come un approccio “bottom up”. In questo contesto, la qualificazione dei critpo-asset è operata confrontando il loro contenuto giuridico con quello proprio, da un lato, delle fattispecie tipiche previste dalla disciplina dei servizi di pagamento (quale quella degli strumenti di pagamento) e, dall’altro, delle fattispecie previste dalle norme sulle offerte pubbliche (e, in particolare, di quella di prodotto finanziario) e – ovviamente – delle fattispecie previste dal regime MiFID (e, quindi, di quella di strumento finanziario).

Ritiene chi scrive che tale approccio “bottom-up” (per quanto perfettamente ragionevole e comprensibile) debba essere integrato con un approccio “top-down”, che consideri – oltre ai contenuti giuridici dei token – anche il ruolo svolto dalle piattaforme di trading sulle quali sono scambiati le criptoattività2.

L’esigenza di adottare questo approccio integrato deriva dal fatto che uno utility token “puro”, che non presenta, cioè, alcuna caratteristica di finanziarietà, viene scambiato su un circuito che abbia caratteristiche che lo rendono assimilabile ad un MTF (o ad un’altra trading venue), rischia una sorta di “mutazione genetica” che ne comporta l’attrazione nel novero degli strumenti finanziari. E ciò a causa, non tanto della sua funzione “intrinseca”, quanto piuttosto della sua “negoziabilità”.

Si pone, quindi, il problema di stabilire se ed a quali condizioni le variegate tipologie di criptoattività, se negoziate (o negoziabili) su un mercato secondario, siano qualificabili alla stregua di strumenti finanziari.

Più precisamente, la questione della possibile riqualificazione dei token (inclusi gli utility token) quali strumenti finanziari, riguarda la riconducibilità degli stessi agli strumenti derivati e, in particolare, ai derivati su commodity o su merci, per tali intendendosi quelli “che fanno riferimento a merci o attività sottostanti di cui all’Allegato I, sezione C, punti 5), 6), 7) e 10), nonché gli strumenti finanziari previsti dal comma 1-bis, lett. c), quando fanno riferimento a merci o attività sottostanti menzionati all’Allegato I, sezione C, punto 10)3.

La possibile riqualificazione degli utility token come strumenti finanziari derivati impone di valutare caso per caso se essi presentino in concreto una componente derivativa, e, quindi, abbiano un valore che dipende da un sottostante. In particolare, occorre chiedersi (i) se il token esaminato abbia un sottostante, (ii) se il valore del token possa variare in funzione della variazione del valore di tale sottostante e (iii) se il token sia regolato o possa essere regolato a scelta di una delle parti in denaro, anziché con consegna fisica del sottostante, e se sia negoziato o sia negoziabile su un mercato secondario che abbia caratteristiche che lo assimilano ad una trading venue riconosciuta ai sensi della MiFID II.

In tal caso, il vocabolario che conosciamo nell’ambito di MiFID II è già abbastanza ampio ed articolato da attrarre nel proprio ambito di applicazione i token in relazione ai quali la risposta ai quesiti di cui sopra sia positiva4.

La domanda sulla potenziale qualificazione dei token come derivati è, allo stato attuale del dibattito, sostanzialmente aperta e sussiste un significativo livello di incertezza a riguardo: ciò risulta anche dall’indagine condotta tra le autorità di vigilanza degli Stati membri nel contesto del Parere ESMA del 20195. Tuttavia, l’impressione che emerge dalle analisi finora condotte è che questo profilo non è stato sufficientemente approfondito. Fino ad ora, l’attenzione è stata principalmente focalizzata sulla necessità di qualificare i token come attività idonee all’inclusione nelle categorie di base di strumenti finanziari regolati dalla MiFID, mentre la questione della loro riconducibilità ai derivati sembra sostanzialmente trascurata. Riteniamo che la questione non possa essere risolta in senso generale, giacché richiede un esame caso per caso del singolo token, e delle sue caratteristiche6. Certamente, quando il token ha, come sottostante, uno strumento per la raccolta di capitali che può essere ricondotto alle tassonomie dei “valori mobiliari”, la sua qualificazione come derivato risulta, tutto sommato, facile, e il token sarebbe molto probabilmente un derivato finanziario sotto tutti gli aspetti. Al contrario, quando si considera un “puro” utility token, o un token “ibrido”, la domanda è più complessa.

Tutto ciò premesso, consci dei problemi ermeneutici relativa alla qualificazione giuridica delle criptoattività, facciamo seguito alla proposta di cui al paragrafo 3 del capitolo 2.9 del Documento, relativa alla definizione della fattispecie “dei token di utilizzo (utility token) – onde consentire l’emissione e la vendita di token rappresentativi di servizi e beni, materiali o immateriali, non rappresentativi di strumenti/prodotti finanziari né aventi natura monetaria, attributivi di diritti di utilizzo, godimento o proprietà al loro possessore sul bene che i token esprimono”.

Nello specifico, si ritiene che un tentativo di qualificazione giuridica degli utility token debba tenere conto dell’attuale disciplina dei documenti di legittimazione di cui all’articolo 2002 del Codice Civile italiano, ovvero, di quei “documenti che servono solo a identificare l’avente diritto alla prestazione, o consentire il trasferimento del diritto”. Se, infatti, la finalità precipua degli utility token è meramente quella di attribuire “diritti di utilizzo, godimento o proprietà al loro possessore sul bene che i token esprimono”, al netto delle nuove caratteristiche tecnologiche incorporate dai token, non si vede quale sia la differenza sostanziale tra questi ultimi e dei “semplici” documenti di legittimazione; documenti molto diffusi nella vita quotidiana (pensiamo, ad esempio, ai biglietti dell’autobus o del cinema)7. Tale soluzione interpretativa sembra, peraltro, essere in linea con quanto già proposto dalla CONSOB nel Documento per la Discussione “Le offerte iniziali e gli scambi di cripto-attività” pubblicato il 19 marzo 2019, con riferimento alla definizione di criptoattività.

In conclusione, anche a fini di coerenza sistemica, non possiamo non menzionare quanto già previsto dall’ordinamento italiano con riferimento al
recepimento della V Direttiva antiriciclaggio e più precisamente con il d.lgs. n. 125 del 4 ottobre 2019, il quale da come definizione di valuta virtuale: “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”. È evidente l’intento del legislatore del 2019 di ampliare la portata della definizione comunitaria; intento, peraltro, espressamente dichiarato nella Relazione che accompagnava lo schema del decreto legislativo, la quale chiarisce che la definizione mira ad includere, sia sul piano soggettivo (ovvero dei soggetti obbligati all’adempimento degli obblighi antiriciclaggio), sia su quello oggettivo (ovvero delle fattispecie rilevanti), una casistica ampia, variegata e difficilmente codificabile. Questo tentativo comporta che nella definizione di cui trattasi possano – almeno in linea di principio – “convivere”, solo per fare alcuni esempi, asset riconducibili alle nozioni di “beni” (così come definiti nell’art. 810 c.c.), di “documenti di legittimazione”, di “strumenti finanziari” (come definiti dall’art. 1. co. 2 del TUF), “prodotti finanziari” (come definiti nell’art. 1, co. 1, lett. u) del TUF), di “strumenti di pagamento” (come definiti dal TUB) e così via. Asset la cui qualificazione in diritto dipende anche dalle modalità e dalle finalità per le quali emittenti e titolari, ne caratterizzano emissione e circolazione.

Sebbene l’ampiezza della definizione sopra riportata non ci aiuti a dirimere il dibattito (di cui supra) sulla eventuale riconducibilità dei token alla
categoria dei derivati, ha il pregio, vista la sua omnicomprensività, di non escludere la categoria dei documenti di legittimazione dall’alveo di applicazione della normativa volta a contrastare il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo (“AML/CFT”). Pertanto, la nostra proposta di “ri-lettura” degli utility token alla luce della categoria giuridica del documento di legittazione, non presenta problemi di coerenza sistemica anche con riferimento alla normativa AML/CFT.

(iii) Proposta 2.11 Raccomandazioni relative alla value chain delle criptoattività.
Osservazioni 

L’analisi effettuata delle differenze tra le previsioni normative contenute nella IV e V Direttiva Antiriciclaggio e le norme italiane di recepimento nell’ambito dei decreti legislativi che hanno modificato il D. Lgs. 231/07 è puntuale e condivisa, mostrando come l’omissione o l’aggiunta di alcune locuzioni possa rendere difficoltoso lo sviluppo delle criptoattività e delle correlate tecnologie nonché, di conseguenza, degli operatori attivi in tali settori, ostacolando di fatto la diffusione delle nuove tecnologie presso il grande pubblico. Si aggiunga che l’eterogenea posizione adottata da diversi Paesi nel mondo riguardo sia alla definizione del quadro giuridico, che riguardo all’utilizzo di queste nuove tecnologie ne ostacola l’interoperabilità internazionale in modo paradossale, essendo le nuove tecnologie per definizione avulse dai confini geografici e, in questo senso, si condivide pienamente l’indicazione contenuta in altri paragrafi del documento di sviluppare una cooperazione nella creazione di un ambiente giuridico/operativo comune quantomeno in ambito europeo.

Un’osservazione concerne comunque l’alveo in cui è contenuta a livello europeo e italiano la normativa concernente le criptoattività e cioè la normativa per la prevenzione dell’utilizzo del sistema a fini di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo che appare rappresentativa dell’atteggiamento che potremmo definire quantomeno “avverso” delle Autorità nei confronti di tale innovazione tecnologia. Sarebbe opportuno che le Autorità italiane in coordinamento con quelle europee “fondassero” un quadro normativo ad hoc per tali attività che permettesse la regolamentazione delle stesse come attività proprie del nuovo paradigma tecnologico anche modificando/adattando normative esistenti di natura civilistica e/o finanziaria. La normativa antiriciclaggio in questo senso dovrebbe essere poi adattata alla nuova tecnologia e non secondo un paradigma di ostacolo allo sviluppo della stessa; ma con previsioni che si plasmino maggiormente alle caratteristiche operative, le tecnologie utilizzate e i rischi ad esse sottostanti, al fine di governare un processo di sviluppo ordinato di questa particolare evoluzione tecnologica che, ineluttabilmente, nel corso del tempo, assumerà connotati di pervasività soprattutto nel sistema dei pagamenti.

L’utilizzo delle tecnologie DLT – con il sottostante concetto di decentralizzazione – rappresenta senz’altro uno degli sviluppi più promettenti nel cambiamento dei paradigmi organizzativi oggi esistenti in diversi settori di attività. Tale nuovo paradigma pone anche problematiche, in quanto si innesta in un ambiente giuridico evolutosi secondo logiche organizzative che hanno visto le controparti centrali quali protagoniste della ricezione/trasmissione e conservazione delle informazioni, creando una catena del valore delle informazioni parcellizzata, ove è necessario accorpare i dati di più gestori per avere una rappresentazione unitaria dei fenomeni. La nuova tecnologia rende tutto ciò diverso, i dati sono contenuti in un registro decentralizzato che rappresenta il fenomeno nella sua unitarietà e profondità storica e certificata, con le conseguenti ricadute sui diritti (dal diritto di proprietà, alla privacy, all’antiriciclaggio, sicurezza informatica, etc.) che richiedono un diverso modo di essere rappresentati nel quadro giuridico. In questo senso, tornando all’antiriciclaggio, è necessario sfruttare le caratteristiche di tracciabilità dei flussi propri della tecnologia DLT e la sua inalterabilità che garantirebbe, se opportunamente regolamentata e diffusa, ad esempio, nel sistema dei pagamenti, di risolvere gran parte delle problematiche di monitoraggio dei flussi finanziari, scoraggiando attività illecite di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo e/o garantendo l’identità dei soggetti che movimentano i flussi finanziari.

(iii) Proposta 2.12. Raccomandazioni relative all’applicazione della normativa
antiriciclaggio 

La proposta di semplificazione contenuta nel paragrafo è auspicabile ma richiede comunque un ripensamento generale della norma antiriciclaggio e, in particolare, di quelle che sono le disposizioni in materia di adeguata verifica. Infatti, occorrerebbe riconsidarare i casi in cui, nell’ambito dell’operatività in criptoattività, occorre applicare le diverse forme di adeguata verifica (ovvero, ordinaria, semplificata e rafforzata) al fine di definire chiaramente per gli operatori finanziari e non, sottoposti alla normativa antiriciclaggio (c.d. soggetti obbligati), quando ricorrere alla diverse forme di adeguata verifica. In questa “ridefinizione”, è sicuramente opportuno capire anche come poter sfruttare le proprietà della tecnologia DLT, al fine di tracciare i flussi finanziari. Se ipotizziamo uno sviluppo del sistema dei pagamenti che utilizza le criptoattività e la conseguente possibilità di poter identificare fattispecie, al ricorrere delle quali, è possibile applicare semplificazioni agli adempimenti  antiriciclaggio, ciò porterà sicuramente allo sviluppo e alla maggiore diffusione delle nuove tecnologie; ma come sopra accennato, a tale maggiore diffusione contribuisce, comunque, uno sviluppo normativo nella materia de qua che incorpori l’operatività in criptoattività in tutte le sue declinazioni, non limitandosi al campo definitorio.

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  1. Cfr. per maggiori informazioni il sito https://annunziataconso.eu/it/home/.
  2. F. Annunziata, Speak if you can: what are you? An alternative approach to the qualification of tokens and initial coin offerings, Bocconi Legal Studies Research Paper Series No. 2636561, 37 e ss., reperibile al seguente indirizzo https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3332485##.
  3. Art. 1, comma 2-ter, D.lgs. n. 58/1998 (TUF).
  4. F. Annunziata, La disciplina delle trading venues nell’era delle rivoluzioni tecnologiche: dalle cryptovalute alla distributed ledger technology, X Convegno annuale dell’Associazone Italiana dei Professori Universitari di Diritto Commerciale “Orizzonti del Diritto Commerciale”, “L’evoluzione tecnologica e il diritto commerciale” Roma, 22-23 febbraio 2019.
  5. ESMA, Advice on Initial Coin Offerings and Crypto-Assets ESMA50-157-1391, 9 gennaio 2019, consultabile qui:
    <https://www.esma.europa.eu/sites/default/files/library/esma50-157- 1391_crypto_advice.pdf>.
  6. Infatti, nell’ESMA Advice del gennaio 2019, alcuni dei sei token analizzati sembrano avere caratteristiche tali da essere potenzialmente assimilabili agli strumenti derivati, anche se, su questo punto, le posizioni espresse dalle autorità di vigilanza non sono inequivocabili (cfr., in particolare, i paragrafi 76-89).
  7. Inoltre, ad essi non si applica la disciplina di cui al Titolo V (“Dei titoli di credito”) del Codice Civile.

Oggetto: Risposta alla Consultazione pubblica in materia di razionalizzazione degli obblighi informativi delle SGR e degli organismi di investimento collettivo del risparmio e ulteriori interventi di adeguamento.

Lo studio associato AC Annunziata&Conso intende anzitutto ringraziare codeste spettabili Autorità di Vigilanza per l’opportunità offerta di esprimere osservazioni e commenti al documento di consultazione, pubblicato in data 1 giugno 2017, relativo alla razionalizzazione degli obblighi informativi delle SGR e degli organismi di investimento collettivo del risparmio.

Con il presente documento si intendono trasmettere, in via congiunta, i propri commenti e osservazioni relativi alle proposte di modifiche normative afferenti tanto alla Circolare di Banca d’Italia n. 189 del 21 ottobre 1993, quanto alla Delibera CONSOB n. 17297 del 28 aprile 2010, dei quali sarà fornita separata evidenza nei paragrafi (ii) e (iii) che seguono.

(i) Premessa

Anzitutto, su di un piano generale, si desidera osservare che l’opera di razionalizzazione degli obblighi informativi delle SGR e degli OICR, oggetto della presente consultazione, dovrebbe mirare ad evitare il più possibile la duplicazione di invii alle diverse Autorità di Vigilanza: allo stato, tenuto conto della documentazione de quo sottoposta a consultazione pubblica, si ritiene che tale rischio sia sterilizzato solo con riferimento a specifiche casistiche di segnalazione, per le quali è previsto il ricorso ad un unico canale di trasmissione sia per Banca d’Italia sia per CONSOB. Al fine di semplificare ulteriormente e rendere meno onerosa la gestione dei flussi informativi, in termini preferibili tanto per codeste Autorità di Vigilanza, quanto per le entità dalle stesse vigilate, si ritiene opportuno valutare la possibilità di prevedere il ricorso ad un unico canale di trasmissione per tutti i documenti che devono essere inviati ad entrambe le Autorità di Vigilanza.

(ii) Bozza del 17° aggiornamento della Circolare di Banca d’Italia n. 189 del 21 ottobre 1993 – Manuale delle Segnalazioni Statistiche e di Vigilanza per gli Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio

Con riferimento agli obblighi di segnalazione previsti in capo alle SICAF, si suggerisce di limitare quelli afferenti a patrimonio di vigilanza e requisiti patrimoniali alle sole SICAF che gestiscono direttamente i propri patrimoni; ciò in coerenza con la circostanza che le SICAF che designano un gestore esterno non rientrano nella definizione di “gestore” ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. q-bis TUF. Sulle SICAF cc.dd. “etero-gestite”, anche in fase di autorizzazione [1] , non è infatti richiesta una valutazione circa l’adeguatezza del patrimonio di vigilanza e dei requisiti patrimoniali previsti invece, in via generale, in capo ai soggetti a tutti gli effetti rientranti nel novero dei gestori. Resta comunque fermo il peculiare regime di capitale sociale minimo richiesto ai sensi del Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio, adottato con Provvedimento di Banca d’Italia del 19 gennaio 2015, di seguito “Provvedimento Banca d’Italia” (cfr. Titolo III, Capitolo I, Sezione IV).

In tale prospettiva, si suggerisce di specificare – alle pp. 23 e 24 della Bozza del 17° aggiornamento della Circolare n. 189 del 21 ottobre 1993 – che l’effettuazione delle segnalazioni di cui alla Sezione II, Parte Prima, della medesima Circolare riguarda le sole SICAF che gestiscono direttamente i propri patrimoni.

(iii) Modifica della Delibera CONSOB n. 17297 del 28/04/2010 – Manuale degli obblighi informativi dei soggetti vigilati

(a) Ai codici I.14.DP.l, I.14.DP.m e I.14.DP.n sono previsti i seguenti termini per l’invio delle relazioni delle funzioni di controllo interno delle SGR:

– con riferimento alla relazione della funzione di controllo di conformità alle norme, 30 giorni dall’approvazione del bilancio di esercizio, in caso di relazione annuale (ovvero 30 giorni dall’esame delle medesime relazioni da parte degli organi aziendali, in caso di relazioni infrannuali);

– con riferimento alla relazione della funzione di gestione del rischio e alla relazione della funzione di revisione interna, 30 giorni dall’esame della relazione da parte degli organi aziendali.

Si suggerisce, dunque, di allineare in toto il termine previsto per la funzione di controllo di conformità alle norme con quello previsto per le funzioni di gestione del rischio e di revisione interna, prevedendo un unico termine per l’invio delle relazioni di tutte e tre le funzioni di controllo, corrispondente a 30 giorni dall’esame della relazione da parte degli organi aziendali.

In tale prospettiva, e laddove questo ultimo suggerimento fosse ritenuto condivisibile, appare opportuno segnalare nella presente sede anche la necessità, per quanto occorrer possa e in una prospettiva di coordinamento, di modificare il Titolo IV, Capitolo III, Sezione II, punto 8 del Provvedimento Banca d’Italia, al fine di allineare i termini per l’invio delle relazioni delle funzioni di controllo, in coerenza con quanto riportato nel presente paragrafo (a).

(b) Ad integrazione di quanto riportato al paragrafo (a) di cui sopra, posto l’espresso riferimento alle sole relazioni predisposte da tali tre funzioni (controllo di conformità alle norme, gestione del rischio e revisione interna), si richiede di chiarire se anche la relazione a cura della funzione antiriciclaggio debba essere o meno oggetto di segnalazione all’Autorità di Vigilanza.

(c) Ai codici I.14.DP.o e I.14.DP.p è previsto un termine pari a 30 giorni per l’invio del rendiconto di gestione e della relazione semestrale relativi agli OICR, decorrenti dalla scadenza del termine stabilito per la relativa redazione. Ai sensi del Provvedimento Banca d’Italia (cfr. Titolo IV, Capitolo III, Sezione II, punto 4), per il medesimo adempimento nei confronti di Banca d’Italia è invece previsto un termine pari a 10 giorni decorrenti a loro volta dal termine previsto dal D.M. (ossia il Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze n. 30 del 5 marzo 2015, adottato ai sensi dell’art. 39 TUF).

Stante tale disallineamento tra i termini previsti per l’invio delle relazioni degli OICR gestiti, si richiede di valutare l’opportunità di allineare i termini previsti dalla Delibera CONSOB n. 17297 del 28/04/2010 a quelli previsti dal Provvedimento Banca d’Italia, ossia 10 giorni dai termini previsti dal D.M.

Si coglie altresì l’occasione per suggerire una modifica terminologica con riferimento all’adempimento di cui al codice I.14.DP.o, consistente nella sostituzione dell’espressione “rendiconto di gestione” con quella di “relazione annuale”, in coerenza con il disposto degli artt. 2-3 del sopra richiamato D.M.

(d) Si segnala che al codice I.14.DE.h della Delibera CONSOB n. 17297 del 28/04/2010 è previsto che il regolamento di gestione degli OICR deve essere inviato entro 30 giorni dalla data in cui il regolamento è o si intende approvato ai sensi del Provvedimento Banca d’Italia. Allo stesso tempo, proprio ai sensi del Provvedimento Banca d’Italia (Titolo IV, Capitolo III, Sezione II, punto 15), le SGR sono tenute a trasmettere alla Banca d’Italia, entro 10 giorni dall’approvazione, il regolamento di gestione dei fondi che (ai sensi dell’art. 37, comma 4, TUF) non sono soggetti all’approvazione della stessa Banca d’Italia.

Stante dunque tale disallineamento, si chiede di valutare l’opportunità di allineare il termine di invio ai sensi del codice I.14.DE.h a quello previsto dal Provvedimento Banca d’Italia (i.e. 10 giorni).

(e) Per quanto attiene alla documentazione contabile da inviare ai sensi della Delibera CONSOB n. 17297 del 28/04/2010, i codici I.15.DP.a, I.15.DP.b, I.15.DP.c, I.15.DP.d e I.15.DP.e fanno rispettivamente riferimento al bilancio d’esercizio, alla relazione dell’organo amministrativo sul bilancio d’esercizio, alla relazione dell’organo con funzioni di controllo sul bilancio d’esercizio, alla relazione della società di revisione sul bilancio d’esercizio, e alla delibera di approvazione del bilancio d’esercizio. Stante tale formulazione, si rinviene un parziale disallineamento rispetto alla terminologia impiegata nel Provvedimento Banca d’Italia (cfr. Titolo IV, Capitolo III, Sezione II, punto 4.1) ove è richiesto alla SGR di inviare “entro 30 giorni dalla delibera di approvazione del bilancio, copia del verbale dell’assemblea che lo ha approvato, copia del bilancio della società e, ove redatto, del bilancio consolidato, corredati della documentazione prevista dalla legge e della relazione del soggetto incaricato della revisione legale dei conti”.

In tale prospettiva, si propone di modificare la descrizione dei codici della Delibera CONSOB n. 17297 del 28/04/2010 in modo da garantire uniformità rispetto alla terminologia impiegata nel Provvedimento Banca d’Italia e assicurare così piena coerenza tra le rilevanti disposizioni predisposte dalle Autorità di Vigilanza in materia di invio della documentazione contabile.

(f) Da ultimo, si propone di eliminare l’obbligo di comunicazione verso CONSOB, previsto dal codice I.14.DS.a della Delibera CONSOB n. 17297 del 28/04/2010, dei soggetti che detengono una partecipazione rilevante ai sensi dell’art. 15 TUF: trattandosi infatti di obbligo informativo già previsto a vantaggio della Banca d’Italia, la quale rappresenta l’Autorità preposta a regolare e valutare il rispetto dei requisiti di onorabilità e sana e prudente gestione in capo ai partecipanti al capitale delle SGR, si ritiene che l’invio di tali informazioni anche alla CONSOB determini una ingiustificata duplicazione degli oneri informativi in capo ai soggetti vigilati.

* * *

[1] Nella documentazione da allegare nell’ambito della procedura autorizzativa delle SICAF etero- gestite, non sono inclusi la relazione sulla struttura organizzativa e il programma di attività, nel quale sono indicati gli elementi in ordine alla capacità delle SICAF di mantenersi in condizioni di equilibrio e di rispetto delle norme prudenziali nella fase di avvio dell’attività.

Oggetto: Risposta alla Consultazione pubblica sullo schema di decreto legislativo di recepimento della direttiva 2015/2366/UE e di adeguamento della normativa interna al Regolamento (UE) n. 751/2015.

I. Modifiche al Decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385 – Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (TUB).

I.I Art. 114-octiesdecies TUB

È noto che gli istituti di pagamento (IP) e gli istituti di moneta elettronica (IMEL) non sono completamente “autonomi” nella prestazione dei servizi di pagamento o nella emissione di moneta elettronica, in quanto, nel rispetto del principio di tutela dei fondi dei clienti (ex artt. 114-quiques.1 e 114-duodecies, TUB, e relativa disciplina di attuazione), hanno l’obbligo di riversare la liquidità di questi ultimi presso le banche depositarie, con indicazione che si tratta di beni di terzi.

Tali limiti operativi sono in parte mitigati per gli IP con la prospettata introduzione, nello Schema di decreto, dell’art. 114-octiesdecies TUB, il quale prescrive che: “le banche non negano agli istituti di pagamento l’apertura e il mantenimento di conti di pagamento […]” e tali conti “consentono all’istituto di pagamento di fornire servizi di pagamento in modo agevole ed efficiente”. L’articolo si applicherebbe quindi alle banche depositarie dei fondi della clientela degli IP, al fine di evitare, o quantomeno ridurre, possibili alterazioni della concorrenza nel mercato dei pagamenti.

L’art. 114-octiesdecies TUB, tuttavia, trovando applicazione per i soli IP, non terrebbe conto che anche gli IMEL in realtà, come evidenziato, sono tenuti a detenere le somme della clientela, in “conti beni di terzi”, presso le banche depositarie e, pertanto, soggetti ai medesimi potenziali limiti operativi degli IP. Si suggerisce, dunque, di estendere l’applicazione dell’art. 114-octiesdecies TUB anche agli IMEL.

Inoltre, soffermandosi sulla testualità dell’articolo in commento, al fine di rafforzare il suo carattere programmatico di favore alla concorrenza nel mercato dei pagamenti, si ritiene opportuno suggerire l’introduzione di un’ulteriore prescrizione per le banche depositarie, tenute all’apertura di conti agli IP (e ci si augura, alla luce di quanto precisato, anche agli IMEL). In particolare, le banche, ai conti accesi dagli operatori presso le medesime, dovrebbero applicare costi di gestione e tenuta del conto “ragionevoli” e “adeguati”, nonché comunque “proporzionati alle spese effettivamente sostenute”. Ciò, al fine di ridurre il rischio che gli istituti di credito possano applicare costi non proporzionati ai conti accesi dagli operatori, che si troverebbero a riversarli sulla clientela, di fatto snaturando i principi alla base dell’art. 114-octiesdecies TUB.

II. Modifiche al Decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11 (attuazione della Direttiva 2007/64/CE, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, recante modifica delle Direttive 97/7/CE, 2002/65/CE, 2005/60/CE, 2006/48/CE, e che abroga la direttiva 97/5/CE).

II.I Ambito negativo di applicazione: agente commerciale

La Direttiva 2015/2366/CE (cd. PSD2), che abroga e sostituisce la Direttiva 2007/64/CE (PSD), ha modificato, tra l’altro, il perimetro di alcune forme di esenzione dall’ambito di applicazione della disciplina in materia di servizi di pagamento; ci si riferisce, in particolare all’operatività: (i) degli agenti commerciali; (ii) degli strumenti a spendibilità non generalizzata; (iii) dei fornitori di reti o servizi di comunicazione elettronica; (iv) degli installatori di ATM (Automatic Teller Machine).

Con riferimento alla disciplina dell’agente commerciale, la modifica che si intende apportare all’art. 2, c. 2, lett. b), D.lgs. 11/2010, in recepimento della direttiva comunitaria, meglio specifica l’ambito di riserva negativo di attività, ma lascia comunque aperte delle “zone grigie”; si tratta, peraltro, di una non completa chiarezza della disposizione frutto del dettato testuale della stessa PSD2.

Più nello specifico, l’articolo in commento esonera dall’ambito di applicazione della disciplina sui servizi di pagamento l’attività dell’agente commerciale, quando questi agisce:
– per conto del solo pagatore o del solo beneficiario “in base a un accordo a negoziare o a concludere la vendita o l’acquisto di beni o servizi”;

– per conto sia del pagatore, sia del beneficiario, ma “non entri[a] mai in possesso dei fondi dei clienti o non li controlli[a]”.

Quello che non appare di semplice interpretazione è il discrimine tra l’attività tipica di agenzia commerciale (i.e. l’agire per conto del solo pagatore o del solo beneficiario) e quella più vicina all’attività di intermediazione (i.e. l’agire per conto sia del pagatore, sia del beneficiario), soprattutto nel modello di business che si esplicita attraverso le piattaforme di commercio elettronico, che per loro natura mettono in relazione o contatto più soggetti (cfr. il Considerando 11, PSD2[1]).

Il tema in questione – che sotto il profilo della testualità della norma potrebbe sembrare di semplice soluzione – si rileva di notevole interesse per i risvolti di natura penale (ci si riferisce, in particolare, all’abusivo esercizio dell’attività di prestazione di servizi di pagamento) che potrebbe avere un’errata interpretazione, e di conseguenza applicazione, della disciplina di esenzione in commento. Infatti, l’“agente commerciale”, anche se è legato al solo pagatore o al solo beneficiario da un rapporto contrattuale di mandato a negoziare o a concludere la vendita, entra comunque sempre in contatto con entrambi i soggetti, pagatore e beneficiario; dunque, l’attività di agenzia commerciale sotto un profilo sostanziale, in assenza di indicatori presuntivi che ne delimitino il perimetro, ben può confondersi con l’attività tipica di intermediazione (i.e. l’agire per conto sia del pagatore sia del beneficiario).

Tale circostanza comporta per gli operatori il porsi alcuni interrogativi, tra i quali: l’esistenza di un rapporto contrattuale tra pagatore e agente commerciale o tra beneficiario e agente commerciale, è condizione necessaria e sufficiente per ricadere nell’esenzione? Il possesso da parte del pagatore di una carta fedeltà emessa dall’agente, che opera con un contratto per conto del beneficiario, fa ricadere l’attività del menzionato agente nell’ambito dell’intermediazione? Tutte le piattaforme di commercio elettronico, che mettono in contatto pagatore e beneficiario, indipendentemente dal modello di business adottato, svolgono un’attività di intermediazione?

Alla luce di quanto rappresentato, degli interrogativi che precedono e dei profili di interesse penale che può avere la fattispecie, opportuno si rileverebbe un intervento di specificazione da parte del legislatore in sede di recepimento della PSD2, da declinarsi con la delega all’Autorità di settore per la definizione di indicatori di presunzione dell’attività tipica di agenzia commerciale (cfr., più in generale, quanto precisato al paragrafo che segue).

II.II Ambito negativo di applicazione: obbligo di notifica

In materia di ambito negativo di applicazione della disciplina sui servizi di pagamento, la prospettata introduzione ad opera dello Schema di decreto del comma 4-bis all’art. 2, D.lgs. 11/2010, in attuazione dell’art. 37 PSD2, impone agli operatori di notificare all’Autorità di settore il ricorrere delle ragioni che conducono a considerare una determina attività come non riservata; tale notifica è dovuta in sole due ipotesi e, in particolare, per l’operatività: (i) in strumenti a spendibilità non generalizzata e (ii) in operazioni di pagamento effettuate dal fornitore di reti o servizi di comunicazione elettronica. L’art. 37, PSD2 prescrive, inoltre, che le informazioni notificate dall’operatore all’Autorità sono messe a disposizione del pubblico nei registri tenuti dall’Autorità stessa e dall’EBA; l’art. 114- septies, c. 4, TUB, di attuazione della PSD2 precisa, in particolare, che le informazioni sono pubblicate in un’appendice dell’albo degli istituti di pagamento.

Dal Considerando n. 19 della PSD2 emerge che la ratio legis dell’introduzione di tali previsioni è quella di ridurre la disomogeneità nell’applicazione dell’esenzioni dall’ambito di applicazione della menzionata direttiva tra gli Stati membri. Infatti, fino ad oggi, è accaduto che i prestatori di servizi beneficiari di un’esenzione spesso non hanno consultato le Autorità per verificare se le loro attività rientrassero nell’ambito di applicazione della direttiva o ne fossero esenti, ma si sono basati esclusivamente su proprie valutazioni discrezionali.

I risvolti pratici dell’attuazione dell’art. 37, PSD2, sono dunque evidenti. Infatti, da un lato, l’introduzione dell’obbligo di notifica permetterebbe all’Autorità competente di valutare se siano soddisfatti i requisiti delle pertinenti disposizioni, al fine di garantire un’interpretazione uniforme delle norme in tutto il mercato interno; dall’altro, la pubblicazione delle note pervenute all’Autorità nei registri consentirebbe: (i) agli operatori di avere un bagaglio informativo utile per valutare se il modello di business adottato rientri o meno in un’attività riservata e (ii) ai consumatori di rivolgersi ai soggetti in possesso degli idonei requisiti di abilitazione.

Alla luce di quanto precede e tenuto conto di quanto rappresentato anche con riferimento all’agenzia commerciale (cfr. par. II.I), un risvolto positivo per l’operatore e una forma di tutela maggiore per il consumatore si avrebbe con l’estensione dell’obbligo di notifica per tutte le ipotesi di esenzione dalla disciplina della PSD2, ex art. 2, c. 2, D.lgs. 11/2010. Si è consapevoli, tuttavia, che una tale estensione applicativa della norma in commento contrasterebbe con la politica europea di arginare il fenomeno del gold plating, creando, per l’appunto, differenze nell’applicazione del diritto europeo tra Stati membri, che appesantirebbero le amministrazioni con oneri burocratici maggiori.

Fermo restando l’opportunità di valutare una portata più ampia di applicazione dell’articolo in commento nelle opportune sedi di confronto e aggiornamento su una possibile evoluzione della normativa PSD2, a chi scrive, preme suggerire comunque di valutare una modifica del c. 4-bis, art. 2, D.lgs. 11/2010. In particolare, si richiama l’attenzione sull’opportunità di introdurre la delega di competenza alla Banca d’Italia per la definizione di indicatori e i criteri, o per la divulgazione di note di chiarimenti, utili a delimitare il perimetro dell’attività non riservata ex art. 2, c. 2, D.lgs. 11/2010; ciò, tenuto conto dei quesiti normativi che giungeranno alla stessa Autorità dagli operatori sull’interpretazione e l’applicazione della normativa di settore. Solitamente, infatti, ai quesiti posti, la Banca d’Italia non risponde direttamente ma si riserva di valutarli, nell’esercizio delle proprie competenze, quale spunto per eventuali modifiche alla regolamentazione di vigilanza o per comunicazioni e provvedimenti di carattere generale (cfr. quanto precisato nella sezione del sito della Banca d’Italia dedicato ai “Criteri per la gestione dei quesiti normativi”).

* * *

[1] Nello specifico il Considerando n. 11 della PSD2 precisa che: “ove agiscano per conto sia del pagatore sia del beneficiario (ad esempio mediante una piattaforma di commercio elettronico) gli agenti dovrebbero essere esclusi solo qualora non entrino mai in possesso dei fondi dei clienti o non li controllino”.

 

Oggetto: Risposta alla Consultazione pubblica sullo schema di decreto legislativo volto a rettificare la normativa antiriciclaggio nazionale in recepimento della direttiva (UE) 2015/849 (“Direttiva”), relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo.

 

1. Soggetti abilitati (art. 3 dello Schema di decreto)

I.1 Con riferimento al disposto dell’art. 3 (“Soggetti obbligati”), si rileva come la lettera h) del secondo comma, nel tenere conto delle novità apportate in materia di gestione collettiva del risparmio dal d.lgs. 44/2014, include tra le categorie di soggetti cui si applica lo Schema di decreto, “le società di investimento a capitale fisso, mobiliare e immobiliare, come definite dall’articolo 1, comma 1, lettera i-bis) TUF (SICAF)”.

Come noto, in base al quadro normativo e regolamentare italiano rinnovato a seguito del recepimento della Direttiva 2011/61/UE (“AIFM”), lo schema di investimento “SICAF” può configurarsi alternativamente come “autogestito” ovvero come “etero-gestito”. Nel secondo modello, a differenza di quanto accade nel primo, la complessiva attività di investimento/disinvestimento, nonché quella di ricerca e di instaurazione dei rapporti con la clientela, è incardinata non in capo alla stessa SICAF, bensì ad un gestore esterno; ossia una società di gestione del risparmio che svolge la propria attività di gestione collettiva a valere anche sul patrimonio della SICAF.

Nel caso della SICAF “gestita internamente”, la stessa è allo stesso tempo soggetto “gestore” e soggetto “gestito”. Diversamente il modello della gestione esterna prevede che la SICAF rappresenti essenzialmente un ente che, per quanto munito di una propria autonoma e separata personalità giuridica, ex lege non ha alcuna autonomia in merito all’attività gestoria a valere sul proprio patrimonio nonché, generalmente, alle iniziative poste in essere per il marketing delle proprie azioni. In tale struttura la SICAF ricopre dunque un ruolo “passivo”, contrapposto a quello “attivo” di competenza del gestore esterno.

Tale impianto si accompagna ad una rilevante diversificazione degli oneri e degli obblighi organizzativi in capo alle SICAF, a seconda appunto della diversa configurazione del modello come autogestito ovvero etero-gestito. In tale ambito si pensi alla circostanza, di particolare rilevanza ai fini della presente analisi, che nel modello organizzativo della SICAF etero-gestita può essere non espressamente prevista l’istituzione delle unità aziendali tipicamente preposte all’espletamento delle attività antiriciclaggio, rappresentando ciò di fatto una prerogativa del gestore esterno.

Tuttavia, come osservato, l’art. 3, comma 2, lettera h), si limita a fare riferimento in via generica alla categoria delle SICAF, senza operare alcuna distinzione tra modelli autogestiti ed etero-gestiti. Sulla base perciò di quanto sopra riportato, si richiede di specificare che tra i soggetti obbligati ex art. 3 cit. rientrano esclusivamente le SICAF che gestiscono direttamente i propri patrimoni, con conseguente (almeno implicita) esclusione delle SICAF etero-gestite.

 

I.2 Sempre con riferimento al perimetro soggettivo dell’ambito di applicazione dello Schema di decreto, si rileva come a differenza del regime previgente – in cui la categoria degli intermediari finanziari destinatari della disciplina comprendeva, tra gli altri, anche le succursali insediate in Italia di banche, SIM, IMEL, IP, SGR, ecc. – il comma 2, lett. u) individui quali soggetti obbligati “gli intermediari bancari e finanziari e le imprese assicurative aventi sede legale e amministrazione centrale in un altro Stato membro, stabiliti senza succursale sul territorio della Repubblica italiana”. Al riguardo si osserva che:

(i) la Direttiva non contempla la facoltà per gli Stati membri di sottoporre alle regole in materia antiriciclaggio anche gli intermediari finanziari che operano senza stabilimento di una succursale. Dal combinato disposto di cui agli artt. 2, comma 1 e 3, comma 1, nn. 1) e 2) della Direttiva, si ricava che soltanto le succursali situate nell’Unione di intermediari finanziari (imprese di investimento, imprese di assicurazione, intermediari assicurativi, banche, ecc.) ricadono nell’ambito applicativo della relativa disciplina;

(ii) l’utilizzo della locuzione “stabiliti senza succursale” contenuta nell’art. 3, comma 2, lett. u), potrebbe ingenerare confusione circa la reale portata applicativa della norma dal punto di vista soggettivo, soprattutto per gli operatori del mercato che, pur operando senza stabilimento di succursali, operano in Italia avvalendosi di agenti collegati stabiliti.

Infatti, anche tali “operatori”, che agiscono sul mercato nazionale secondo un modello operativo che si qualifica, a tutti gli effetti, come libera prestazione dei servizi, nel nostro ordinamento sono destinatari delle medesime regole di comportamento perviste per le succursali.

Vi è, dunque, quanto ad applicazione di tali regole, una parziale parificazione tra soggetti operanti con stabilimento e soggetti operanti senza stabilimento.

Alla luce di quanto precede, sembra legittimo domandarsi se la norma in commento debba essere letta come un (ulteriore) caso di estensione agli operatori che prestano i loro servizi in libera prestazione dei servizi, delle regole (in questo caso in materia antiriciclaggio) previste per le succursali, ancorché soltanto in presenza di determinate modalità operative – i.e. operatività per il tramite di agenti collegati stabiliti -.

Diversamente ci si domanda se tutti gli intermediari che operano senza stabilimento rientrino nell’ambito di applicazione dello Schema di decreto, a prescindere dalle specifiche modalità di prestazione dei propri servizi.

In merito ai punti sopra evidenziati, si chiede di chiarire l’effettiva portata applicativa dello Schema di decreto, prediligendo (a) una impostazione maggiormente fedele al dettato della Direttiva, (b) più omogenea tra le differenti categorie di soggetti analizzate, e (c) connotata dall’utilizzo di un linguaggio più univoco.

 

2. Analisi e valutazione del rischio: valutazione e procedure di mitigazione del rischio (artt. 15 e 16 dello Schema di decreto)

Nell’ambito degli obblighi sanciti dall’art. 16 dello Schema di decreto con riferimento alle procedure di mitigazione del rischio di riciclaggio e di finanziamento, il comma 2 specifica che:

entro 12 mesi dall’entrata in vigore del presente decreto, le autorità di vigilanza di settore ai sensi dell’articolo 7, comma 1, gli organismi di autoregolamentazione, ai sensi dell’articolo 11 comma 4, individuano i requisiti dimensionali e organizzativi in base ai quali i soggetti obbligati, rispettivamente vigilati e controllati adottano specifici presidi, controlli e procedure per:

1. la valutazione e gestione del rischio di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo;

2. l’introduzione di una funzione antiriciclaggio, ivi comprese, se adeguate rispetto alle dimensioni e alla natura dell’attività, la nomina di un responsabile della funzione antiriciclaggio e la previsione di una funzione di revisione indipendente per la verifica delle politiche, dei controlli e delle procedure”.

È pertanto rimesso alla competenza delle Autorità di vigilanza e degli organismi di autoregolamentazione dei soggetti obbligati, il compito di individuare i requisiti dimensionali e organizzativi in base ai quali tali soggetti debbano adottare presidi, controlli e procedure per l’introduzione, tra le altre, di una funzione di revisione indipendente per la verifica delle politiche, dei controlli e delle procedure in materia antiriciclaggio. Al riguardo, si richiede di prevedere espressamente che l’attività di tale funzione, in ossequio al principio di proporzionalità, che informa l’intero ordinamento finanziario, possa essere svolta dalla funzione di Internal Audit degli intermediari interessati. Ciò apparirebbe peraltro coerente con il richiamo implicito al principio di proporzionalità, operato dalla stessa norma nella parte in cui si precisa che la nomina del responsabile antiriciclaggio e la previsione della funzione di revisione avvengano “se adeguate rispetto alla dimensione e alla natura dell’attività”. Si ritiene, inoltre, che la funzione di Internal Audit, come disciplinata nei vari ambiti dell’ordinamento bancario, finanziario e assicurativo, soddisfi di per sé i requisiti di indipendenza previsti dalla disciplina dello Schema di decreto, e garantisca, inoltre, coerenza e compatibilità con l’oggetto e dell’attività prevista dalla normativa in esame.

 

3. Obblighi di adeguata verifica della clientela: modalità di adempimento (art. 17, comma 4 dello Schema di decreto)

In merito alle tempistiche che devono essere seguite dagli operatori al fine di adempiere agli obblighi in materia di adeguata verifica della clientela, l’art. 17 stabilisce che: “I soggetti obbligati adempiono alle disposizioni di cui al presente capo nei confronti dei nuovi clienti nonché dei clienti già acquisiti, rispetto ai quali l’adeguata verifica si renda opportuna in considerazione del mutato livello di rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo associato al cliente”.

Si osserva che tale previsione non risulta perfettamente allineata al disposto della Direttiva, che all’art. 14, comma 5, stabilisce che: “Gli Stati membri prescrivono che i soggetti obbligati applichino le misure di adeguata verifica della clientela non soltanto a tutti i nuovi clienti ma anche, al momento opportuno, alla clientela esistente, in funzione del rischio, compreso il caso di modifica della situazione del cliente” (n.d.r.: sottolineato aggiunto).

A ben vedere, infatti, la formulazione prevista dalla Direttiva sembra prevedere un ambito oggettivo di applicazione più ampio di quello previsto dallo Schema di decreto. Infatti, la lettera dell’art. 14, comma 5 della Direttiva sembra richiedere l’obbligo di provvedere alla adeguata verifica del “cliente già acquisito” non solamente nei casi in cui muta il livello di rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo associato al cliente (a differenza dunque di quanto pare ricavarsi dallo Schema di decreto), ma, in generale, in funzione del rischio di riciclaggio ad esso attribuito.

Alla luce di quanto sopra, si richiede di chiarire in quali circostanze i soggetti obbligati siano tenuti a procedere con l’adeguata verifica dei clienti già acquisiti, ossia solo in presenza di un mutamento del livello di rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo associato al cliente, ovvero anche in ulteriori diverse casistiche.

 

4. Obblighi di adeguata verifica della clientela: disposizioni applicabili nella prestazione dei servizi di pagamento ed emissione e distribuzione di moneta elettronica (art. 17, comma 6 dello Schema di decreto)

Si è consapevoli che la norma in commento trova applicazione in diversi contesti e modelli di business in uso presso gli operatori del settore. In questa sede si vuole porre l’attenzione, in particolare, sul contesto dell’operatività degli istituti di pagamento e di moneta elettronica, nella prestazione dei servizi di pagamento e in dettaglio sul servizio di pagamento di bollettini.

Per la prestazione dei servizi di pagamento, gli istituti di moneta elettronica e di pagamento possono avvalersi di agenti in attività finanziaria o nei servizi di pagamento oppure ancora dei soggetti incaricati per lo svolgimento di una mera attività di incasso, alle condizioni precisate dall’art. 12, comma 2 del d.lgs. 141/2010.

Nell’ambito del cd. servizio di pagamento di bollettini (ex art. 1, c. 1, lett. B), n. 3 “esecuzione di ordini di pagamento, incluso il trasferimento di fondi, su un conto di pagamento presso il prestatore di servizi di pagamento dell’utilizzatore o presso un altro prestatore di servizi di pagamento […]”) il modello di business diffuso prevede che l’istituto di pagamento o l’istituto di moneta elettronica presti nei confronti della clientela tale servizio previo conferimento di un mandato di mero incasso nei confronti di un esercente (un imprenditore commerciale, individuale o collettivo, non per forza con i requisiti dell’agente in attività finanziaria). In tale ipotesi, si osserva che:

(i) l’attività svolta dal soggetto incaricato non costituisce un servizio di pagamento quando a monte vi è la convenzione con l’ente fatturatore/beneficiario e come tale non sarebbe soggetta agli obblighi di adeguata verifica;

(ii) le operazioni di pagamento dei bollettini, caratterizzate in prevalenza da limitati poteri di spesa ed evidenza della titolarità, non rappresentano strumenti mediante i quali sia possibile compiere attività di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo;

(iii) lo svolgimento dell’attività di adeguata verifica risulta incompatibile con la natura del servizio di pagamento di bollettini (caratterizzata dall’istantaneità).

Tenuto conto di tutto quanto precede, si invita codesto Ministero:

(a) a valutare una modifica della disposizione in commento, e per coerenza eventualmente intervenire sul nuovo Capo V, al fine di consentire a tutti gli operatori che prestano il servizio di pagamento di bollettini di poter continuare a svolgere tali servizi senza subordinare lo svolgimento delle attività di mero incasso, svolte da parte dei soggetti incaricati, al preventivo assolvimento degli obblighi di adeguata verifica;

(b) in subordine, a meglio chiarire la portata del disposto normativo precisando che il servizio di pagamento di bollettini rientra tra le attività soggette alle misure di adeguata verifica semplificata ai sensi del novellato art. 23, c. 2, lett. b), n. 5 (i.e. “prodotti in cui i rischi di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo sono mitigati da fattori, quali limiti di spesa o trasparenza della titolarità”).

 

5. Misure semplificative di adeguata verifica della clientela (art. 23 dello Schema di decreto)

Le modifiche proposte dallo Schema di decreto nell’ambito delle “Misure semplificate di adeguata verifica della clientela”, contenute all’art. 23, segnano un certo scostamento dalla disciplina in vigore di cui all’art. 25 del d.lgs. 231/2007, nella misura in cui stabiliscono dei criteri generali per l’applicazione delle misure semplificate di adeguata verifica, per quanto vincolato a determinati indici, contro il numerus clausus vigente.

Infatti, la disciplina in vigore identifica situazioni tipizzate in presenza delle quali ai destinatari della norma è concessa l’esenzione dagli obblighi di adeguata verifica della clientela, fatto salvo per lo svolgimento di un’attività minimale di indagine, limitata ad accertare che il cliente e lo strumento rientrino nei casi di esenzione (art. 25, comma 4). Si tratta, segnatamente, di requisiti sia soggettivi dei clienti (art. 25, comma 1), sia oggettivi delle operazioni (art. 25, comma 6). Per quanto più specificamente ai secondi, la norma resta comunque aperta a “qualunque altro prodotto o transazione caratterizzato da un basso rischio […] che soddisfi i criteri tecnici stabiliti dalla Commissione”.

Lo Schema di decreto prevede, invece, che le misure di adeguata verifica semplificata si applichino, conformemente alla Direttiva, “in presenza di un basso rischio di riciclaggio o di finanziamento”. I soggetti obbligati valutano il “basso rischio” in funzione, fra l’altro, di un elenco di indici non esaustivo contenuto all’interno della medesima norma. Tali indici sono relativi alla “clientela”, ai “prodotti/ servizi, operazioni o canali di distribuzione” e ad aree geografiche.

A ben vedere, gli “indici di rischio” stabiliti dallo Schema di decreto ripropongono caratteristiche molto simili alle fattispecie “chiuse” previste dalla normativa vigente. I punti di maggior contatto si registrano nell’ambito degli indici di rischio relativi a “prodotti, servizi, operazioni o canali di distribuzione”: (i) stessi limiti di valore del premio di contratti di assicurazione-vita; (ii) medesime disposizioni circa le forme pensionistiche complementari; (iii) medesime disposizioni circa i regimi di previdenza o i sistemi analoghi. I profili di maggiore novità si registrano, invece, negli indici di rischio relativi alla clientela: lo Schema di decreto, infatti, a differenza della disciplina attualmente in vigore, identifica tre categorie di clienti a basso rischio, che corrispondono soltanto in parte ai soggetti individuati nell’ambito dell’art. 25, comma 1, d.lgs. 231/2007: (i) società quotate su mercati regolamentati che assicurano un’adeguata trasparenza della titolarità effettiva; (ii) pubbliche amministrazioni o imprese pubbliche; (iii) clienti che sono residenti in aree geografiche a basso rischio.

Alla luce di quanto sopra, si ritiene che la normativa vigente sia sostanzialmente coerente con quanto indicato dall’art. 15 della Direttiva e sia, perciò, già in grado di assicurare efficacemente l’identificazione dei soggetti cui si applicano gli obblighi di adeguata verifica semplificata. Il mantenimento dell’approccio adottato dal d.lgs. 231/2007 è inoltre preferibile rispetto alla novità proposta con lo Schema di decreto, poiché evita la proliferazione di casi in cui i diversi soggetti obbligati adottino approcci differenti, sulla base di valutazioni discrezionali differenti, di fronte alla medesima tipologia di cliente (ad esempio, società fiduciarie).

 

6. Obblighi di adeguata verifica della clientela assolti da terzi (artt. 26 e 27 dello Schema di decreto)

Lo Schema di decreto conferma la possibilità di ricorrere a terzi per l’assolvimento dell’obbligo di adeguata verifica della clientela a fronte di specifica attestazione (preventiva) rilasciata dal terzo, come attualmente in vigore ai sensi dell’art. 30, d.lgs. 231/2007.

Di contro, tuttavia, il dettato dello Schema di decreto non prevede più la possibilità di fare riferimento al bonifico quale possibile attestazione, rimettendo ad un provvedimento (da emanarsi a cura delle Autorità di Vigilanza) l’identificazione delle forme e delle modalità di attestazione idonee a considerare “l’evoluzione delle tecniche di comunicazione a distanza” (art. 27, comma 2).

A parere degli scriventi, si suggerisce di prendere in considerazione la possibilità di reintrodurre (anche già) nel dettato normativo il bonifico quale modalità di attestazione idonea, dal momento che la maggior parte degli operatori e degli intermediari che operano “a distanza” fanno affidamento proprio su tale modalità operativa.

 

7. Obblighi di conservazione (Titolo II, Capo II dello Schema di decreto)

In relazione agli obblighi di conservazione dei dati raccolti nell’ambito dell’attività di adeguata verifica della clientela, si rileva che lo Schema di decreto si discosta significativamente dalla normativa vigente. Infatti, lo schema non prevede espressamente l’obbligo – attualmente in vigore ai sensi dell’art. 37, d.lgs. 231/2007 – di istituire, per alcuni soggetti obbligati, un Archivio Unico Informatico (AUI) al fine di rispettare gli obblighi di registrazione posti in capo a tali soggetti (intermediari finanziari, società di revisione e altri soggetti).

Più in particolare, lo Schema di decreto, al Capo II, dispone che i soggetti obbligati debbano conservare i dati raccolti attraverso l’adeguata verifica della clientela, in formato “non modificabile”, avendo riguardo ad assicurare che la documentazione conservata permetta di ricostruire univocamente una serie di informazioni: data di instaurazione del rapporto; dati identificativi del cliente; data, importo e causale dell’operazione (art. 31). Il medesimo Capo II non prevede in alcun modo che i soggetti attualmente sottoposti all’obbligo di istituzione dell’AUI debbano, in forza dello Schema di decreto, continuare ad assolvere agli obblighi di conservazione attraverso tale specifica modalità, con equiparazione degli intermediari, società di revisione, ecc. agli altri soggetti obbligati (ad esempio, professionisti).

Alla luce di quanto sopra, gli scriventi si domandano dunque se, per i soggetti attualmente sottoposti all’obbligo di istituzione dell’AUI, la registrazione e la conservazione dei dati rinvenienti dall’attività di adeguata verifica della clientela possano essere ottemperati tramite mezzi di registrazione che, pur nel rispetto delle caratteristiche previste dallo Schema di decreto, siano contraddistinti da una flessibilità maggiore rispetto alle rigidità logiche e di scrittura tipiche dell’AUI, in tal modo uniformando la portata di tale obbligo in tutte le categorie di soggetti obbligati.

 

8. Obblighi di segnalazione e comunicazione degli organi di controllo (art. 46 dello Schema di decreto)

L’art. 46 dello Schema di decreto introduce uno specifico obbligo di comunicazione in capo agli organi di controllo dei soggetti obbligati, da effettuarsi nei confronti delle autorità di vigilanza di settore e alle amministrazioni e gli organismi interessati, circa i “fatti che possono integrare violazioni gravi o ripetute o sistematiche o plurime delle disposizioni”. Tale disposizione appare chiaramente modellata sullo schema degli artt. 52 TUB e 8, comma 3, TUF.

L’art. 52 TUB stabilisce infatti che “[i]l collegio sindacale informa senza indugio la Banca d’Italia di tutti gli atti o i fatti, di cui venga a conoscenza nell’esercizio dei propri compiti, che possano costituire una irregolarità nella gestione delle banche o una violazione delle norme disciplinanti l’attività bancaria”. L’art. 8, comma 3, TUF prevede che “[i]l collegio sindacale informa senza indugio la Banca d’Italia e la Consob di tutti gli atti o i fatti, di cui venga a conoscenza nell’esercizio dei propri compiti, che possano costituire un’irregolarità nella gestione ovvero una violazione delle norme che disciplinano l’attività delle Sim, delle società di gestione del risparmio, delle Sicav o delle Sicaf”.

Le due norme citate presentano un ambito oggettivo di applicazione di ampia formulazione, idoneo a ricomprendere qualsiasi atto o fatto che possa configurare una irregolarità, relativamente alla normativa dell’attività bancaria e degli intermediari finanziari.

Con riferimento a tali sintetiche considerazioni, si osserva come la norma prevista dall’art. 46 rischi di sovrapporsi, in tutto e non in parte, al sistema di segnalazione già esistente e operante in capo agli intermediari bancari e finanziari.

Il fatto che l’oggetto dell’obbligo di comunicazione ai sensi dello Schema di decreto sia rappresentato da fatti idonei a integrare violazioni, ma che si connotato per gravità, ripetitività, sistematicità, reiterazione, molteplicità potrebbe far sorgere situazioni in cui una violazione della disciplina in materia di antiriciclaggio faccia scattare la segnalazione ai sensi dell’art. 52 TUB e non invece ai sensi dello Schema di decreto in quanto sprovvista delle relative caratteristiche.

Al fine di evitare di creare un doppio binario informativo che origini dal medesimo presupposto, anche nell’ottica di favorire e semplificare gli adempimenti degli organi di controllo, si suggerisce di utilizzare una formulazione più generale, tale da favorire l’omogeneizzazione, in chiave interpretativa, dei diversi obblighi di comunicazione dovuti ai sensi della normativa del TUB, TUF e dello Schema di decreto.

 

9. Segnalazione delle violazioni: i sistemi di segnalazione (art. 48 dello Schema di decreto)

In merito all’art. 48, si osserva che lo stesso prevede l’adozione da parte dei soggetti obbligati di “procedure per la segnalazione al proprio interno da parte di dipendenti o di persone in posizione comparabile di violazioni, potenziali o effettive, delle disposizioni dettate in funzione di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo”.

Si tratta di una disposizione finalizzata ad introdurre, anche nell’ambito della disciplina antiriciclaggio, obblighi organizzativi e procedurali in materia di whistleblowing, analoghi a quelli recentemente introdotti nel TUF e nel TUB a seguito del recepimento della Direttiva 2013/36/EU (“CRD 4”), consistenti nella previsione di appositi canali tramite cui un dipendente, ovvero un altro soggetto interno alla società, possa compiere segnalazioni di violazioni di disposizioni ad essa applicabili, rilevate nel corso dello svolgimento della propria attività lavorativa.

Ciò detto, deve essere osservato che l’impianto previsto dal TUF e TUB, rinnovato post-CRD 4, preveda una distinzione a seconda della destinazione delle segnalazioni ad opera del whistleblower. In particolare la bipartizione prevista è tra:

(i) whistleblowing “interno”, consistente nella previsione di meccanismi e procedure interne all’ente per la segnalazione da parte del personale ad un responsabile, allo scopo individuato, di atti o fatti che possano costituire una violazione delle norme applicabili all’ente stesso (previsto dagli artt. 8-bis TUF e 52-bis TUB);

(ii) whistleblowing “esterno”, consistente nella possibilità di rendere noto alle Autorità di Vigilanza le violazioni di cui il personale interno alla società sia venuto a conoscenza (previsto dagli artt. 8-ter TUF e 52-ter TUB).

Tenuto conto del disposto dell’art. 48 dello Schema di decreto, si ricava che lo stesso introduce, in materia di antiriciclaggio, solo degli obblighi di whistleblowing c.d. interno. Si richiede dunque di valutare la possibilità di garantire un pieno allineamento con l’omologa disciplina prevista dal TUF e dal TUB.

 

10. Disposizioni sanzionatorie (Titolo V dello Schema di decreto)

Con riferimento alle disposizioni di cui all’art. 62 dello Schema di decreto, gli scriventi osservano che il sistema sanzionatorio previsto per gli intermediari bancari e finanziari prevede l’applicazione delle relative sanzioni ai soggetti obbligati persone giuridiche anche in funzione del fatturato (comma 1). Il comma 2 della medesima disposizione stabilisce che determinate sanzioni amministrative pecuniarie si applichino anche ai soggetti titolari di funzioni di amministrazione, direzione e controllo e al personale dell’ente che, “non assolvendo in tutto o in parte ai compiti direttamente o indirettamente correlati alla funzione o all’incarico, hanno agevolato o comunque reso possibile le violazioni di cui al comma 1 o l’inosservanza dell’ordine di cui al comma 4, lettera a) del medesimo articolo ovvero hanno inciso in modo rilevante sull’esposizione dell’ente al rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo”.

Sul punto si rileva che l’impostazione generale, che consiste nel prevedere un doppio binario sanzionatorio relativo all’ente e agli esponenti aziendali, di cui il secondo eventuale, è coerente con il nuovo regime sanzionatorio introdotto dalla CRD 4, in forza della quale sono state apportate modifiche al TUF e al TUB. Tuttavia, va evidenziato come i presupposti e le condizioni per l’applicazione delle sanzioni pecuniarie in capo agli esponenti aziendali di matrice CRD 4 divergano dal dettato dell’art. 62, comma 2 dello Schema di decreto. Al riguardo basti richiamare che gli artt. 190-bis TUF e 144-ter TUB prevedono una responsabilità degli esponenti aziendali solo ove:

(a) la condotta dell’agente ha inciso in modo rilevante sulla complessiva organizzazione o sui profili di rischio aziendali (il TUF aggiunge inoltre il caso in cui la condotta abbia provocato un grave pregiudizio per la tutela degli investitori o per l’integrità ed il corretto funzionamento del mercato);

(b) la condotta ha contribuito a determinare la mancata ottemperanza della società o dell’ente a provvedimenti specifici di natura interdittiva o limitativa adottati dalla Banca d’Italia;

(c) le violazioni riguardano obblighi imposti in materia di remunerazione e incentivazione, quando l’esponente o il personale è la parte interessata.

Tali condizioni, rispetto a quelle previste dallo Schema di decreto, appaiono connotate da maggiore oggettività. Si suggerisce, pertanto, anche nell’ottica dell’allineamento degli approcci sanzionatori e di una maggiore coerenza di sistema di allineare, ratione materiae, il comma 2 dell’art. 62 alle condizioni stabilite dagli art. 190-bis TUF e 144-ter TUB, prevedendo che le sanzioni amministrative pecuniarie si applichino anche ai soggetti titolari di funzioni di amministrazione, direzione e controllo e al personale dell’ente che, “non assolvendo in tutto o in parte ai compiti direttamente o indirettamente correlati alla funzione o all’incarico, hanno agevolato, facilitato o comunque reso possibile contribuito a determinare le violazioni di cui al comma 1 o l’inosservanza dell’ordine di cui al comma 4, lettera a) del medesimo articolo ovvero hanno inciso in modo rilevante sull’esposizione dell’ente al rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo”.

Riserva di attività (Titolo I, Capitolo II, Sezione II)

I. In via preliminare, al paragrafo 1 del Titolo I, Capitolo II, Sezione II del Regolamento, “Ambito di applicazione della riserva”, codesta spettabile Banca d’Italia evidenzia che “[i]l servizio di gestione collettiva del risparmio è svolto con carattere di professionalità ed è, pertanto, organizzato per essere esercitato nei confronti di una platea indeterminata di soggetti in modo sistematico e non meramente occasionale”.

Al riguardo si chiede di chiarire il contenuto della locuzione “platea indeterminata di soggetti” e se la stessa, in mancanza di precisi riferimenti normativi, possa essere inquadrata applicando, in via interpretativa, la nozione di pubblico elaborata sulla base dell’art. 18 TUF in materia di servizi di investimento. Si chiede inoltre di chiarire il coordinamento di tale requisito con l’elemento della “pluralità degli investitori” che si rinviene nella nozione di OICR.

II. Proseguendo nell’analisi del paragrafo 1, si legge che “[l]a gestione collettiva del risparmio si caratterizza, in particolare, per la sussistenza di tre elementi tra loro strettamente connessi: i) la gestione di un patrimonio; ii) la gestione dei rischi di tale patrimonio; iii) il carattere collettivo dell’attività, caratterizzata dalla gestione di OICR”. I primi due elementi della fattispecie richiamano espressamente le componenti qualificanti che si rinvengono nella definizione di “gestione collettiva del risparmio” di cui all’art. 1, comma 1, lett. n), TUF. Il terzo punto si rifà, invece, agli elementi qualificanti della nozione di OICR ricavabile dalla definizione offerta all’art. 1, comma 1, lett. k), TUF1.

Il Regolamento evidenzia, quindi, i tratti caratteristici ed essenziali dell’attività di gestione collettiva del risparmio; proprio dall’analisi di tali indicazioni si rinvengono, tra di esse, taluni elementi che concorrono a tracciare un perimetro più nitido della riserva. Ci si riferisce, in particolare, (i) al rendimento per gli investitori; (ii) alla strategia/scopo imprenditoriale, commerciale o industriale; (iii) alla politica di investimento predeterminata.

In relazione al primo punto si chiede, in via preliminare, di chiarire se la caratteristica essenziale del “rendimento” corrisponde alla nozione di rendimento aggregato stabilito dagli Orientamenti ESMA2. In caso affermativo, si chiede di specificarne il relativo contenuto, posto che la formulazione
dell’ESMA appare non chiarissima nella sua portata distintiva: “il rendimento generato dal rischio condiviso che deriva dall’acquisto, dalla detenzione o dalla vendita di beni di investimento – comprese le attività finalizzate a ottimizzare o aumentare il valore di tali beni – a prescindere dal fatto che siano previsti rendimenti differenziati per gli investitori, quali quelli assicurati da una politica di dividendi personalizzati”. Il riferimento al rendimento generato dal rischio condiviso, tratteggiato dall’ESMA, sembrerebbe, infatti, doversi intendere come rendimento finanziario, ossia rendimento perseguito attraverso una gestione improntata sul principio della diversificazione del rischio, piuttosto che al rischio che caratterizza la partecipazione al capitale di rischio delle società e lo scopo lucrativo ad esse sotteso.

Passando al secondo punto, il Regolamento stabilisce che “il patrimonio dell’OICR non può essere utilizzato per perseguire una strategia di tipo imprenditoriale, sia essa commerciale o industriale ovvero una combinazione delle stesse”. Al riguardo si chiede chiarire cosa debba intendersi per strategia imprenditoriale. La dottrina giuscommercialista intende il carattere dell’imprenditorialità in termini di organizzazione, professionalità e, in particolare, economicità dello scopo.
Qualsiasi forma di impresa, esercitata in forma societaria, presenta questi caratteri, che dunque sembrerebbero dotati di bassa capacità distintiva. Più chiari appaiono i contorni degli elementi della strategia commerciale o industriale, anche in virtù delle precisazioni che si rinvengono negli Orientamenti ESMA. Questi ultimi stabiliscono che per scopo commerciale o industriale debba intendersi “il perseguimento di una strategia imprenditoriale caratterizzata da elementi quali lo svolgimento in modo prevalente di:

i) un’attività commerciale, che comprenda l’acquisto, la vendita e/o lo scambio di beni e
merci e/o la fornitura di servizi non finanziari, o
ii) un’attività industriale, che comprenda la produzione di beni o la costruzione di
proprietà, oppure
iii) una combinazione delle due attività summenzionate”.

Tuttavia, si chiede di chiarire cosa debba intendersi per “beni e merci e/o la fornitura di servizi non finanziari”, posto che, ad esempio, sulla base della definizione offerta dall’ESMA, un’attività di compravendita diretta di beni immobili o, più in generale, di opere d’arte o altri beni di lusso – asset class core di alcuni fondi alternativi – potrebbero non rientrare nella suddetta categoria.

Con riferimento all’ultimo punto, si chiede di specificare la differenza tra la “generica business strategy prevista nello statuto dell’impresa” e la politica di investimento. Al riguardo si osserva come i fondi di private equity, e ancora più marcatamente i fondi opportunistici, possano prevedere delle politiche di investimento molto generiche che difettano della maggior parte degli elementi segnaletici della presenza di una vera e propria politica di investimento. Si chiede pertanto di chiarire cosa debba intendersi per business strategy o se essa si ricavi per differenza dalla nozione di politica di investimento sulla base della mancanza di uno, o della prevalenza, degli elementi individuati dagli Orientamenti ESMA e riproposti dal Regolamento.

III. In aggiunta, con riguardo ai soggetti già operanti alla data di recepimento della Direttiva AIFM, si chiede di precisare la portata del regime transitorio, relativamente alla sussistenza dei vari elementi che connotano la nozione di OICR. Alla scadenza del periodo transitorio, infatti, alcuni soggetti potrebbero:
(i) aver esaurito la fase di raccolta di risparmio tra il pubblico, e/o (ii) trovarsi in una fase di mera gestione del periodo di disinvestimento degli assets. Si chiede pertanto di precisare se tali soggetti debbano inoltrare la domanda di autorizzazione prevista dalla legge.

2. Prestazione transfrontaliera di servizi da parte di SGR italiane sottosoglia (Titolo VI, Capitolo II).

Si chiede di chiarire se sia preclusa a un gestore sotto-soglia la possibilità di esercitare all’estero i servizi e le attività per cui è autorizzato in Italia.

Il Titolo VI, Capitolo II del Regolamento, nello stabilire le regole applicabili alle SGR italiane che intendano esercitare in altri Stati UE e non UE i servizi e le attività per cui risultano essere autorizzate in Italia, non prevede alcuna disposizione ovvero procedura specifica per i gestori sotto-soglia.

La mancanza di indicazioni specifiche al riguardo, potrebbe sottendere ad una sostanziale assimilazione dei gestori sotto-soglia a quelli sopra-soglia ai fini dell’attivazione delle procedure prodromiche all’esercizio all’estero dei propri servizi. D’altra parte, la scelta adottata dal legislatore italiano è stata quella di
sottoporre al regime di autorizzazione (e non di semplice registrazione, come invece previsto a livello comunitario) anche i gestori sotto-soglia sottoponendo gli stessi agli obblighi e ai divieti previsti dalla Direttiva AIFM.

Tale interpretazione sembrerebbe peraltro essere sostenuta dalla portata delle definizioni contenute nel Titolo VI, Capitolo II del Regolamento che, nel riferirsi genericamente alle “SGR”, parrebbero ricomprendere anche le SGR sotto-soglia. Di contro, l’art. 41, comma 3, TUF rimanda alla competenza regolamentare di codesta Banca d’Italia il compito di disciplinare “le condizioni e le procedure in base alle quali le SGR sono autorizzate dalla Banca d’Italia, d’intesa con la Consob, per operare in via transfrontaliera negli Stati UE e non UE nei casi esclusi dall’ambito di applicazione delle direttive 2009/65/CE e 2011/61/UE”, quasi a voler confermare l’esigenza di prevedere una procedura ad hoc per le SGR escluse dall’ambito di applicazione della Direttiva ai sensi dell’art. 3 (i.e. gestori sottosoglia).

3. Operatività transfrontaliera dei gestori UE – Attività esercitabili (Titolo VI, Capitolo IV).

Si chiede di chiarire se un gestore autorizzato nel proprio stato membro di origine ad esercitare, in aggiunta al servizio di gestione collettiva, uno o più servizi di investimento, possa prestare in via transfrontaliera tali servizi e, in caso affermativo, se la relativa procedura sia quella prevista dal Titolo VI, Capitolo IV del Regolamento.

Il Titolo VI, Capitolo IV del Regolamento definisce, infatti, le regole applicabili ai gestori UE che intendano esercitare in Italia le attività e i servizi per i quali sono autorizzati nello stato membro di origine. In tale ambito, nel dare attuazione a quanto previsto dall’art. 41-ter del TUF, il Titolo VI, Capitolo IV del Regolamento ha previsto che un gestore UE possa esercitare in via transfrontaliera le attività previste dalle Direttive UCITS e AIFM che, includono, inter alias, i servizi di investimento previsti dalle lett. d) e f) dell’art. 1, comma 5, del TUF e dall’art. 33, comma 2, lett. g) del TUF.

Il dubbio sorge dall’interpretazione letterale dell’art. 41-ter, primo comma, TUF che, nello stabilire che “[..]. i GEFIA UE possono svolgere l’attività di gestione collettiva del risparmio per la quale sono autorizzati ai sensi delle disposizione UE nel territorio della Repubblica […]”, parrebbe riferirsi alla sola attività di gestione collettiva.

Al contrario, le disposizioni contenute nel Regolamento sarebbero coerenti con quanto auspicato dall’ESMA nell’ambito del Q&A n. 714/2014, in merito all’opportunità di anticipare l’estensione del passaporto europeo ai servizi MiFID previsti dalla Direttiva AIFM rispetto alla data di entrata in vigore della Direttiva 2014/65/EU (MiFID II).

4. Operatività transfrontaliera dei gestori UE – Gestione di un FIA italiano (Titolo VI, Capitolo IV).

Il Titolo VI, Capitolo IV, paragrafo 4 del Regolamento nel dare attuazione alle disposizioni contenute nell’art. 41-ter, comma 2, TUF, disciplina la procedura di comunicazione che un GEFIA UE deve instaurare nei confronti di codesta Banca d’Italia per poter essere ammesso alla gestione di un FIA italiano.

Al riguardo, oltre ad evidenziare l’opportunità di modificare i riferimenti contenuti nel paragrafo 4.1, 5° capoverso, 3° alinea, si chiede di fornire specifiche indicazioni in merito alle tempistiche entro le quali codesta Banca d’Italia sia tenuta ad effettuare le verifiche previste dal paragrafo 4.1, 5° capoverso, nel caso in cui il GEFIA UE intenda gestire un FIA italiano riservato (non trovando in tal caso applicazione le disposizioni previste nel paragrafo 4.1, 4° capoverso).

5. Depositario di OICR e Fondi Pensione (Titolo VIII)

I. Il Titolo VIII, Capitolo I, Sezione II, paragrafo 1 del Regolamento, nello stabilire che il depositario “ha un assetto organizzativo idoneo a garantire l’efficiente e corretto adempimento dei compiti a essa affidati, avute anche presenti le caratteristiche dei portafogli degli OICR per i quali intende svolgere la funzione di depositario” (punto 7) e che, in particolare, “per lo svolgimento dei controlli in merito alla correttezza del calcolo del valore delle parti dell’OICR da parte della SGR, della SICAV o SICAF, il depositario si avvale di strutture e procedure adeguate per la determinazione del pricing di strumenti finanziari non quotati ovvero caratterizzati da elevata complessità nonché dei beni immobili” (sottopunto iv), alla nota n. 4, chiarisce che “per i beni immobili il depositario riscontra la congruità dei valori e delle procedure di valutazione utilizzate anche dall’esperto indipendente (cfr. Titolo V, Capitolo IV, par. 4 e Comunicazione congiunta della Banca d’Italia e della Consob del 29 luglio 2010 in materia di processo di valutazione dei beni immobili dei fondi comuni di investimento)”.

Si osserva l’opportunità di meglio chiarire il contenuto di quanto precisato nella nota testé richiamata, in particolare nella parte in cui viene richiesto al depositario di verificare “la congruità dei valori” dei beni immobili di pertinenza del patrimonio in gestione. In mancanza di una più chiara declinazione del significato e della finalità di tale attività di verifica, così come – in termini più strettamente operativi – del perimetro e della profondità del controllo richiesto, il generico riferimento alla “verifica di congruità” rischierebbe di gravare il depositario di obblighi e attività ultronei rispetto a quelli che sono richiesti a detti soggetti in forza della disciplina comunitaria.

Per quanto di possibile utilità alla riflessione proposta, pare utile osservare che tra le disposizioni di cui al Regolamento Delegato della Commissione n. 231/2013 non sembra potersi rinvenire un obbligo di verifica (di congruità) della specie richiamata dal Regolamento. Il riferimento corre, tra gli altri, all’art.
94, 95 e al considerando n. 108, ove sono declinati i compiti del depositario avuto riguardo alla verifica dei valori degli assets di pertinenza di ciascun FIA.

II. Il Titolo VIII, Capitolo I, Sezione III, “Funzioni di depositario di fondi pensione”, richiama, tra le altre (i.e. Sezione II e V), anche la Sezione IV dello stesso Capitolo, con ciò di fatto estendendo anche ai depositari di fondi pensione la disciplina inerente “l’autorizzazione ad assumere l’incarico di calcolare il valore delle quote” per detti fondi.

Tale “richiamo” non sembra tuttavia compatibile con le previsioni di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 252/05, come da ultimo modificato dal D.Lgs. 44/2014, da leggersi alla luce delle disposizioni di cui all’art. 48 TUF, come modificato dallo stesso D.Lgs. 44/2014. Il citato art. 7 prevede che al depositario delle risorse dei fondi pensione “si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni relative ai depositari degli OICR diversi dagli OICVM di cui agli articoli 47, 48 e 49 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e relativa normativa di attuazione”.

L’art. 48, comma 3, lett. b), TUF dispone però che nel solo caso degli OICVM italiani, su incarico del gestore, il depositario possa provvedere esso stesso al calcolo del valore delle parti di detti OICVM. Il tenore letterale delle disposizioni testé richiamate e il loro combinato disposto rendono opportuno un chiarimento riguardo la finalità e la concreta portata pratica del richiamo alla Sezione IV contenuto nel Titolo VIII, Capitolo I, Sezione III, “Funzioni di depositario di fondi pensione”, qui in commento.

III. Al Titolo VIII, Capitolo III, Sezione II del Regolamento si legge che “[…] [l]a liquidità non può essere utilizzata dai soggetti presso i quali è depositata, nell’interesse proprio o di terzi. […]”

Si ritiene opportuno che la finalità e la concreta portata pratica di tale disposizione vengano meglio circostanziate. Nel suo tenore letterale, il testo della norma in commento sembra infatti porsi in contrasto con le disposizioni di cui all’art. 21 della Direttiva AIMF e con le previsioni del Regolamento delegato della Commissione n. 231/2013. In particolare, si osserva che, in tale ambito, non pare potersi ritrovare alcun espresso e omologo divieto nel senso riportato dalla disposizione in esame. Non pare peraltro che tale limitazione possa essere ricondotta (neppure) al divieto di c.d. “riutilizzo” dei beni di un OICR (FIA o UCITS), che l’art. 21, paragrafo 10 della Direttiva AIFM circoscrive infatti ai soli beni/attività identificati nello stesso art. 21, al paragrafo 8, tra i quali non è ricompresa la “liquidità”.

Inoltre, con riferimento alle ipotesi in cui la liquidità venga depositata in conti accesi presso banche e/o succursali di banche, il divieto parrebbe in contrasto con le disposizioni di cui all’art. 1834 cod. civ., il quale, come noto, stabilisce che “nei depositi di una somma di denaro presso una banca, questa ne acquista la proprietà ed è obbligata a restituirla nella stessa specie monetaria, alla scadenza del termine convenuto
ovvero a richiesta del depositante, con l’osservanza del periodo di preavviso stabilito dalle
parti o dagli usi”.

1 L’art. 1, lett. k) del TUF definisce OICR l’“organismo il cui patrimonio è raccolto tra una pluralità di investitori mediante l’emissione e l’offerta di azioni o quote, gestito in monte nell’interesse degli investitori e in autonomia dai medesimi nonché investito in strumenti finanziari, crediti, partecipazioni e altri beni mobili e immobili in base a una politica d’investimento predeterminata”.

2 Ciò tenuto conto del riferimento espresso a tali Orientamenti, riportato tra le fonti normative di cui al paragrafo 2.

Risposta alla Consultazione pubblica sullo schema di regolamento attuativo dell’art. 39, D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (“TUF”), concernente la determinazione dei criteri generali cui devono uniformarsi gli Organismi di investimento collettivo del risparmio italiani.
Lo studio associato Annunziata & Conso intende anzitutto ringraziare codesto spettabile Ministero per l’opportunità offerta di esprimere osservazioni e commenti allo schema di regolamento attuativo in oggetto (“Schema di regolamento”): si deve infatti riconoscere l’estrema rilevanza di tale documento in consultazione, tenuto anche conto del fatto che lo stesso è destinato ad abrogare una fonte dell’ordinamento finanziario che ricopre un ruolo fondamentale nell’ambito della disciplina della gestione collettiva del risparmio, ossia il decreto del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica n. 228 del 24 maggio 1999 (“DM 228/1999”).
Analizzato nel dettaglio il contenuto dello Schema di regolamento, chi scrive si pregia di rassegnare le seguenti osservazioni.